Purgatorio, canto XIV, seconda cornice: invidiosi.

Guido Del Duca, ravennate, riconoscendo l’eccezionalità del suo ospite, chiede a Dante la sua provenienza. Dante risponde con una perifrasi, celando il nome del fiume (l’Arno) che scorre presso la città in cui è nato. A questo punto Rinieri de’ Calboli, forlivese accanto a Guido, chiede come mai il poeta non abbia dato una risposta diretta; lo intercetta Guido, sostenendo che è giusto che la Val d’Arno non venga più nominata, e lanciandosi quindi in un’aspra invettiva contro la Toscana e infine in una nostalgica rievocazione della Romagna dei bei tempi antichi.

Fra l’excursus toscano e quello romagnolo, Guido ci regala una perfetta definizione di cosa sia l’invidia: quando era in vita il suo sangue bruciò così tanto per questo sentimento che se avesse visto un uomo rallegrarsi sarebbe subito divenuto viola dalla rabbia. Ma torniamo alla Romagna. Guido passa in rassegna le sue città, con alacre nostalgia per i bei tempi andati, fatti di grandi condottieri che ora non è più possibile incontrare; di questi tempi, i cuori “son fatti sì malvagi”. Primo rappresentante di tale malvagità è Maghinardo Pagani (già ricordato in Inf. XXVII, come il “lioncel dal nido bianco / che muta parte da la state al verno”, colui che governa “le città di Lamone e di Santerno”, Faenza e Imola). In questo canto viene catalogato come un demonio vero e proprio, la cui stirpe, per fortuna, si estinguerà presto. E peccato che non l’abbia ancora fatto (vv.118-120). È l’unico ad essere citato direttamente, e perdipiù con l’appellativo di demonio: Guido ha le idee chiarissime.

Veniamo ai grandi gentiluomini romagnoli del passato citati da Guido: quattro di loro sono faentini. Il primo è Bernardino di Fosco. Oltre a constatare, desolato, che di faentini come lui non ne torneranno più (“Quando in Faenza un Bernardin di Fosco?”), Guido ci informa che Bernardino era “verga gentil di picciola gramigna”: nobile d’animo e di costumi, ma di stirpe oscura. Secondo l’Ottimo fu figlio di un agricoltore, ma acquisì grande prestigio grazie alle sue virtù, tanto da diventare una specie di attrazione per i visitatori: “Non si vergognavano li grandi antichi uomini venirlo a visitare per vedere le sue orrevolezze, ed udire da lui leggiadri motti”. Secondo Benvenuto, i nobili faentini prendevano appunti dalle sue battute (eius dicta notanda allegabant). L’Anonimo fiorentino racconta che un giorno, avendo concesso generosamente in prestito tutti i suoi cavalli, si trovò in difficoltà perché gliene serviva uno con urgenza e non trovava chi a sua volta gliene prestasse. Anziché ricredersi sulla sua generosità, Bernardino si fece portare la Bibbia e giurò solennemente che da allora in poi avrebbe sempre concesso in prestito i suoi cavalli a chiunque glieli chiedesse “però ch’egli avea provato quanto altri avea caro d’essergli prestati, quando altri n’avea bisogno”.

Dopo Bernardin di Fosco, troviamo Guido da Prata, ora Prada, non lontano dalla Castellina di Pieve Cesato, ai confini fra i comuni di Faenza e di Russi. L’unica informazione che ricaviamo dalle antiche chiose è che fu molto stimato, pur provenendo, come Bernardino, da umili origini.

Ancora più difficile l’identificazione di “Ugolin d’Azzo che vivette nosco” e che il Lana, l’Ottimo, il Buti, dicono faentino, senza specificare altro. Tra le sue attribuzioni si segnala un vecchio equivoco. Nel 1588, un Giovan Battista Ubaldini pubblica a Firenze una storia della propria casata e si sofferma per alcune pagine sul personaggio dantesco, identificando con un “gentilissimo cittadino della città di Faenza, che dimorò e visse in Toscana” (dunque, che vivette vosco e non nosco) e “dilettossi di compor versi”, fra cui la canzonetta “Passando con pensier con un boschetto” che riporta interamente. Ma, come dimostrò tre secoli più tardi Giosuè Carducci, la canzonetta, o più propriamente caccia in rima in questione è posteriore di un secolo e appartiene a Franco Sacchetti. Non ci sono dunque prove e nemmeno indizi che questo Ugolino abbia mai scritto versi. Eppure, l’equivoco si ripropone ancora spesso: a “Ugolino d’Azzo Ubaldini poeta morto nel 1293” è tuttora intitolata una via del centro di Faenza.

Nessun dubbio invece sull’identificazione di Ugolino dei Fantolini, che tutti gli antichi commentatori dicono faentino, ma era originario di Zerfognano, o Cerfugnano, sopra Brisighella. Fu signore di castelli nella valle del Lamone, in vallate limitrofe (Sassatello, valle del Senio) e anche in pianura: ci sono documenti che lo qualificano conte Donigaglia, nel lughese. Abbiamo già visto che si distinse (probabilmente) con Bernardino di Fosco nella difesa di Faenza contro Federico II. Fu primo consuocero di Tebaldello Zambrasi ed è menzionato più volte da Cantinelli, che riporta anche la data della sua morte: 10 febbraio 1278. Da Matteo Chiromono sappiamo che fu sepolto nella tomba di famiglia a Faenza, chiesa di S. Andrea, ora S. Domenico; Dante dunque potrebbe avere visto la sua lapide sepolcrale.

Dante avrà probabilmente ricavato questi personaggi e le loro storie da narrazioni orali durante le sue frequentazioni romagnole; altrimenti sconosciuti, vivranno per sempre, grazie al notevole vantaggio di esser stati ricordati nella Commedia.

Francesco Chiari

[N.d.A.: questo articolo è stato scritto utilizzando in larga misura le ricerche del prof. Stefano Drei]

Progetto a cura dell’associazione culturale Acsè

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