Rispuose adunque: «I’ son frate Alberigo;
i’ son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo».

Inferno, canto XXXIII, vv. 118-120

In fondo alla voragine dell’Inferno si trova il fiume Cocito, nelle cui acque, ghiacciate dallo sbattere d’ali di Lucifero, sono puniti i traditori. Dante incontra frate Alberico Manfredi nella “Tolomea”, zona riservata ai traditori degli ospiti, immerso nel ghiaccio col viso rivolto verso l’alto, accecato dalle lacrime che gli si congelano sugli occhi. Nel 1300 però, anno in cui Dante intraprese il suo viaggio, Alberico non era ancora morto. Si trovava già all’inferno poiché le anime della Tolomea venivano precipitate qui non appena compiuto il peccato di tradimento, mentre il corpo mortale era abitato da un diavolo fino alla morte.

Di Alberico non sappiamo l’anno di nascita né quello di morte, anche se nel 1300 doveva già essere avanti con gli anni. Fu uno dei Manfredi che nel corso del Duecento lottarono per la supremazia su Faenza incontrando avversari quali il “lioncel dal nido bianco” Maghinardo Pagani (If XXVII, 49-51) o alleati come Tebaldello Zambrasi “ch’aprì Faenza quando si dormia” (If XXXII, 123).

Apparteneva ai Frati della Beata Gloriosa Vergine Maria, detti “frati gaudenti”, un ordine religioso i cui aristocratici membri si impegnavano a condurre una vita esemplare in difesa degli ideali cristiani, oltre a portare le armi solo per sedare tumulti o contro chi violava la giustizia.

Già podestà di Bagnacavallo, era in affari con lo zio Alberichetto e alla sua morte divenne tutore di suo figlio Francesco, futuro primo signore di Faenza, difendendolo dal cugino Manfredo che mirava al patrimonio e al potere giunto nelle mani del giovane. Durante un litigio qualche anno dopo, Manfredo (o secondo altri suo figlio Alberghetto) preso dall’ira diede uno schiaffo ad Alberico. Fu un’offesa gravissima e per evitare vendette intervenne addirittura il podestà di Faenza mandando Manfredo e Alberghetto al confino a Ravenna. Alberico finse di accettare la pace con i parenti e li invitò a pranzo alla Castellina (nei pressi di Pieve Cesato) il 2 maggio 1285. Quando pronunciò la famosa frase “vengano le frutta”, Francesco, il figlio di Alberico e alcuni sicari assalirono e uccisero Manfredo, Alberghetto e i loro accompagnatori. Nonostante la gravità dell’atto e il clamore che suscitò lungo tutta la penisola, Alberico e Francesco furono solo multati e cacciati da Faenza. Ancora vivo nel 1309, “poiché riteneva di aver sempre osservato la legge divina” Alberico chiese di essere sepolto nella chiesa dei frati minori di S. Francesco a Ravenna.

Giulia Timoncini e Nicola Solaroli

Progetto a cura dell’associazione culturale Acsè

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