Gianni de’ Soldanier credo che sia
più là con Ganellone e Tebaldello,
ch’aprì Faenza quando si dormia».
Inferno, Canto XXXII, 121-123
Dante cita il faentino Tebaldello Zambrasi tra i dannati puniti nel fondo più recondito dell’Inferno, l’Antenora, dove vengono puniti i traditori della patria. Viene nominato assieme ad altri due traditori: Gianni de Soldanieri, fiorentino passato dalla parte ghibellina alla guelfa aizzando le sommosse, e Ganellone, ovvero Gano di Magonza, il famoso traditore del ciclo carolingio che in ogni istante tenta di ingannare re Carlo per sfavorire i paladini.
Tebaldello aprì Porta Imolese permettendo ai bolognesi di prendere la città e causare la morte di molte persone. L’entrata in pompa magna della guelfa Bologna al centro della Romagna non fu affatto pacifico, né per l’assetto politico della regione, né, naturalmente, per la città.
Tutto ciò per l’atto vile di un uomo, della cui stabilità mentale si discuteva già da anni a Faenza. Riportano le cronache locali che i Lambertazzi, una delle famiglie più potenti a Faenza, fuggiti da Bologna per le proprie idee politiche, rubarono a Tebaldello un maiale, prendendolo in giro quando lui lo reclamava. Lui ideò allora di vendicarsi regalandogli un vaso di salsa piccante, per godersi di più la carne. Poi rasò una cavalla con la quale vagava per le campagne circostanti la città, chiamando la gente a seguirlo in una rivolta non ben definita. Iniziarono a credere che fosse diventato pazzo. E fu proprio in preda a questa Ira ultrix che decise di aprire le porte ai guelfi di Bologna, che volevano le teste dei ghibellini Lambertazzi. Compiendo il tradimento alla città, avrebbe soddisfatto la propria sete; così il 13 novembre del 1280, di notte, aprì la porta della città, e i bolognesi capitanati dalla famiglia dei Geremei entrò a Faenza, mettendola a ferro e fuoco. Scrive lo storico Primo Scardovi: “La città, in quell’ora, era sepolta nel sonno e ignara della strage imminente. Che ebbe principio, violenta, come tempesta scatenata, d’un tratto, dal cielo. Le soldatesche «tamquam leones avidi» (l’immagine è del Cantinelli), irruppero, con grida feroci e fracasso d’armi, per le vie della città, mentre, ai primi allarmi, dalle torri, partivano disperati rintocchi destando di soprassalto i dormienti. Quanti malcapitati si trovarono addosso, per via, quelle orde feroci, furono trucidati o feriti a morte o fatti prigionieri.”
Alex Bertozzi
Progetto a cura dell’associazione culturale Acsè
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