L’8 aprile 1300 Dante comincia il suo cammino che lo porterà, dopo una settimana, a contemplare “L’amor che move il sole e l’altre stelle”. In quell’anno Faenza metteva, per poco, la parola fine ad un secolo travagliato, con l’arrivo di Matteo d’Acquasparta. Ma com’era quella Faenza all’epoca della Commedia? Come si viveva? Come era materialmente fatta? Quali le strutture sociali?

Tante domande. Dante forse non ha visto di persona la città (non è qui in discussione, se fosse o meno passato da qui, Faenza è città dantesca perché le opere del fiorentino sono ricolme di uomini faentini, quasi tutti tacciati d’ignominia!) ma, senz’altro, saranno giunte le descrizioni di questa città.

Anzitutto le mura e le porte: nel 1241 la città cedette a Federico II. I capitolati imposero la distruzione delle mura ed il riempimento dei fossati. Per qualche anno la città fu senza l’elemento che contraddistingue tutte le “urbs” medievali, ovvero le mura. Dopo la sconfitta di Parma nel 1248, vennero innalzati steccati e fossi, ed anche il Borgo venne cinto con un proprio serraglio, come ci ricorda Stefano Saviotti. È in quel momento che vennero rinnalzate le porte.

Dentro, la città era ricca di chiese e di torri. Di cappelle e chiese, monsignor Lucchesi, ne conta oltre trecento. Delle torri oggi non resta alcuna traccia: erano comunque numerose, ed è difficile supporne l’esatta quantità.

Ma Faenza al tempo di Dante non era solo una città di mattoni; era anche una città di uomini.

Secondo articolo

Guelfi e ghibellini, lotta per la supremazia

I faentini al tempo di Dante erano spesso litigiosi: la città era divisa tra “parti”, gruppi armati che si combattevano per il predominio politico ed economico della città. A capo due fazioni che la storia ha diviso in “guelfi” (filopapali) e “ghibellini” (filoimperiali). Ma i confini non sono così chiari e regolari. Comunque la Storia ci ha tramandato di due fazioni capitanate dagli Accarisi e dai Manfredi. Ogniqualvolta arrivassero le truppe imperiali, i guelfi fuggivano verso Bologna mentre i ghibellini prendevano il dominio della città. Al ritorno del Papa poi tornavano e li cacciavano. Ma c’era di più: per damnatio memoriae si radeva al suolo la casa della famiglia cacciata. Questo anche in virtù del fatto che le case spesso erano case-torre, in grado di resistere ed essere autosufficienti in caso di attacco di una parte avversa. A cercare di mettere d’accordo tutti un magistrato, il podestà, con la forza del potere esecutivo, imponeva le proprie decisioni alla città di Faenza e ai suoi uomini rissosi.

L’economia ruotava attorno alla fertile terra romagnola. Possedere dei fondi significava entrate sicure: se nell’alto medioevo molta della terra era in mano all’arcivescovo di Ravenna – che aveva imposto una gestione che oggi definiremmo “mezzadria” – piano piano la nobiltà e la chiesa locale avevano preso possesso di queste terre, e vivevano dei suoi frutti. Importante era sia la “pieve urbana”, l’attuale Duomo, ed anche il monastero avellanita di Santa Maria Foris Portam.

Una città viva, attenta al dibattito, una città che si tinge di nero (lo vedremo con Frate Alberico). Una città opposta a Dante: una città contro il grande sogno dantesco, Federico II, stupor et caput mundi. Una città forte e indipendente, preda di un uomo ambizioso, Maghinardo Pagani. L’uomo solo al comando era un’idea molto in voga nella politica medievale.

Mattia Randi e Alex Bertozzi

Progetto a cura dell’associazione culturale Acsè

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