«Finalmente si intravede un cammino che comincia, non la soluzione di tutti i problemi, ma un percorso che si apre.» Così don Tiziano Zoli, parroco di Solarolo, commenta la notizia dei nuovi negoziati di pace, che mirano a una tregua stabile fra Israele e Palestina dopo due anni di conflitto e una devastazione umanitaria senza precedenti.

Un cammino, non ancora una soluzione definitiva

Per don Zoli, che conosce bene la Terra Santa — vi è stato trenta volte, a partire dal 1996 — questo è «un segnale nuovo, diverso rispetto al cessate il fuoco di inizio 2025. Questa volta – spiega – si respira qualcosa di più concreto. Tutti hanno dovuto fare delle concessioni: governi, mediatori internazionali, organizzazioni umanitarie. Ci sono garanzie reciproche e, soprattutto, un impegno a costruire passi di fiducia. Non è la pace, ma un processo che si avvia». I negoziati, ospitati dall’Egitto con la mediazione di Qatar, Stati Uniti e Unione Europea, prevedono un cessate il fuoco graduale, il rilascio di parte degli ostaggi israeliani e l’ingresso controllato di aiuti alimentari e sanitari nella Striscia di Gaza.

Il ruolo della Chiesa: “Lievito e segno di speranza”

«La Chiesa – sottolinea il parroco – ha il compito di essere lievito e segno di speranza. Non possiamo fermarci alla politica o ai calcoli dei governi. Il nostro dovere è restare accanto alle persone, pregare e lavorare perché i popoli si incontrino. Il Salmo dice: “Domandate pace per Gerusalemme”. È quello che continuiamo a fare da anni». Don Zoli richiama il ruolo del Patriarcato latino di Gerusalemme e del cardinale Pierbattista Pizzaballa, «che con discrezione e fermezza ha tenuto viva l’attenzione internazionale, sia da un punto di vista umano e spirituale, sia favorendo l’apertura di piccoli corridoi umanitari. Il cardinale – ricorda – è riuscito nei mesi scorsi a far arrivare un primo carico di verdura e frutta a Gaza. In quella situazione il problema non è solo “non avere”, ma anche mangiare male. Anche un po’ di vitamine diventa un segno di vita. È un gesto semplice, ma di enorme valore».

La testimonianza della parrocchia di Gaza

«Nei giorni scorsi ho detto ai miei parrocchiani – racconta don Zoli – che la parrocchia oggi sta tornando di moda. Lo dico con convinzione perché a Gaza, nella parrocchia della Santa Famiglia, si prega, si condivide, si vive insieme con quel poco che si ha. È la dimostrazione che la parrocchia non è un edificio, ma una comunità viva che diventa rifugio e segno del Vangelo». Il sacerdote cita le religiose dell’Istituto Effetà di Betlemme e le suore impegnate nell’accoglienza dei bambini sordi. «Le conosco da anni. Sono testimoni silenziose che non fuggono, ma restano accanto alla gente. È quello che ha fatto Gesù: venire ad abitare in mezzo a noi. Anche lì, a Gaza, io l’ho riconosciuto».

Usare le parole giuste: non confondere fede e politica

Tra i temi più delicati c’è quello del linguaggio. «Dobbiamo imparare – insiste don Zoli – a usare le parole giuste. Non confondiamo l’ebraismo con lo Stato di Israele o con il suo governo. Criticare una scelta politica non significa essere antisemiti. Bisogna mantenere la libertà di dire la verità, senza paura, ma sempre con rispetto». Il sacerdote ricorda anche le manifestazioni di piazza in Italia e in altri Paesi, spesso polarizzate. «Da un lato mostrano una sensibilità crescente per la pace, ma dall’altro rischiano di diventare strumenti di divisione. È per questo che la voce della Chiesa deve restare libera, ferma e misericordiosa».

Trent’anni di viaggi e amicizie

Don Zoli ha visitato la Terra Santa «una trentina di volte», la prima nel 1996, con il Seminario di Bologna. Nel tempo ha costruito legami sia con famiglie palestinesi sia con amici israeliani. «In questi anni», racconta, «nessuno ha voluto tagliare i ponti con me, e di questo ringrazio Dio. Certo, qualcuno mi ha detto: “Parliamo di tutto, ma non di questo, perché litigheremmo”. Ma l’amicizia resta. E con gli istituti religiosi, come le suore di Betlemme e dell’Effetà, i contatti non si sono mai interrotti». Il parroco ricorda un incontro toccante avvenuto lo scorso anno a Gerusalemme con il cardinale Matteo Zuppi e due familiari di ostaggi. «Una di loro, Rachel, ci disse: “So che le mie lacrime sono uguali a quelle di una mamma palestinese che ha perso suo figlio”. Quelle parole mi sono rimaste dentro. Il dolore, quando lo condividi, lo puoi affrontare; quando lo contrapponi, ti schiaccia». E poi un’immagine simbolica. «Durante la festa di Sukkot (la festa ebraica delle capanne), è cominciata a cadere la pioggia. In una terra deserta l’acqua è sempre una benedizione. Mi è sembrato un piccolo segno del Cielo. Non so cosa accadrà – conclude don Tiziano Zoli – ma la pace si costruisce ogni giorno. Servono lavoro e ginocchia: braccia per operare e cuore per pregare. In questo cammino la Chiesa non deve mai smettere di essere presenza, preghiera e consolazione. Anche nei momenti più bui, il Signore non ha mai smesso di ascoltarci».