Una delle regole di base della comunicazione è che se un soggetto ha una reazione estremamente battagliera di fronte ad un avvenimento, significa che l’evento che sta commentando lo ha infastidito parecchio. Venendo a noi, il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha reagito in Parlamento in maniera scomposta dopo la manifestazione di Roma, dedicata all’Europa, attaccando il “Manifesto di Ventotene” in maniera fuori dalle righe. C’ero a Roma sabato scorso, ad una manifestazione dopo tanto tempo, ed è stata la più bella piazza che potessi immaginare: tante speranze, tante riflessioni sul futuro possibile, nessuna polemica o toni fuori dalle righe.

L’attacco rivolto dal Presidente del Consiglio al testo stilato nel giugno 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni risente di una lettura frammentata, con citazioni isolate dal contesto, e soprattutto prescinde dal fatto che rappresenta soltanto una prima espressione, poi ridiscussa e corretta dai suoi stessi estensori. Per esempio Meloni si è soffermata sui brani del documento riguardanti il “partito rivoluzionario” e la sua auspicata “dittatura”. Ma Spinelli, già ad agosto 1943 aveva corretto quell’errore di prospettiva, indicando la necessità di creare un movimento trasversale tra le diverse forze antifasciste, capace di riunire tutti coloro che condividevano l’obiettivo di “un’Europa libera e unita”. In realtà, per capire l’importanza di quel testo, e anche i suoi indubbi limiti di astrattezza rispetto agli sviluppi storici successivi, bisogna situarlo nel contesto storico in cui venne redatto, nel pieno della Seconda guerra mondiale. Gli autori lo scrissero mentre si trovavano sulla piccola isola tirrenica di Ventotene, confinati dopo aver trascorso lunghi anni in carcere, per aver cospirato contro il regime fascista.

Il “manifesto di Ventotene” propone di costruire una federazione europea munita di proprie forze militari, senza più barriere economiche protezioniste, con una rappresentanza diretta dei cittadini negli organi centrali, dotata dei mezzi sufficienti per instaurare un “ordine comune”, pur lasciando ai diversi popoli larghi spazi di autonomia. Va ricordato tra l’altro che il Manifesto si rivolge anche agli “imprenditori che, sentendosi capaci di nuove iniziative, vorrebbero liberarsi dalle bardature burocratiche e dalle autarchie nazionali”. Poi sarebbero venuti il “Codice di Camaldoli” un documento programmatico (1943) elaborato da un gruppo di intellettuali di fede cattolica. Tratta tutti i temi della vita sociale: dalla famiglia al lavoro, dall’attività economica al rapporto cittadino-Stato. Tra gli estensori Aldo Moro, Giorgio La Pira, Guido Gonella.

All’art. 96 descrive come la “Creazione di una vita comune internazionale operata attraverso la cura e la gestione di interessi comuni ai vari popoli è la premessa ed il supposto indispensabile per la formazione di una società politica internazionale avente per finalità la armonia e la solidale e ordinata convivenza”. Successivamente tutte queste idee e proposte mossero tre statisti di ispirazione cristiana a iniziare l’integrazione europea con il Trattato di Roma (1957): Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman. Questa è l’eredità di chi si considera europeo a tutto tondo: provare ad irriderlo non mi sembra una buona strada, visti i tempi che corrono.

Tiziano Conti