Intervista alla modiglianese Alberta Tedioli per approfondire il dialetto romagnolo: sulle tracce di una lingua in lento declino, memoria di grande ricchezza culturale

Alberta, avevi iniziato tante attività col dialetto al centro. Ora a che punto siamo? Si ricomincia?

Guarda Roberta, proprio in questi giorni ho avuto contatto con le maestre. Abbiamo concordato alcuni programmi insieme sul dialetto. Il Covid ci aveva fermato nel pieno delle nostre attività, avevamo in lavorazione un docufilm in dialetto, seguito del primo Quand che i bordell i nasceva za grend (quando i bambini nascevano già grandi), nel quale una classe aveva già imparato tutto il copione in dialetto, ma poi il Covid ci ha tragicamente fermato per due anni.

Pensate di riproporlo?

I bimbi che avevano imparato la parte ora sono cresciuti e sono alle medie e sarebbe difficile riorganizzarli, contiamo di fare qualcosa con quelli che attualmente fanno le elementari.

Poi avete altri progetti?

Certamente. Ora iniziamo un approccio alla lingua del territorio con tutte le classi, tranne le prime.

Cosa intendi per approccio?

Non è nostro obiettivo far imparare il nostro dialetto in modo totale, sarebbe impossibile per i tempi e difficilissimo perché il dialetto lo si impara parlandolo quotidianamente. Difficile scriverlo e difficile leggerlo. Era la lingua principale qualche decennio fa e l’italiano per molti si imparava dopo, ma in pratica si apprendevano le due lingue insieme. Un dialettofono non si ricorda quando ha imparato l’italiano, sa solo che li parla entrambi. Noi vogliamo che il bambino inizi a socializzare con questa lingua e ne apprezzi i suoni, gli accenti e i vocaboli. Il bambino deve imparare ad amare questa lingua e deve pensare che sia anche un po’ la sua lingua, deve riconoscerla quando la sente parlata da anziani.

I bambini accettano di buon grado questa che per loro è una novità?

Sono sempre entusiasti, per loro è un gioco, un’ora di ricreazione. Fra l’altro, si inseriscono racconti semplici della quotidianità dei mestieri di un tempo, dei modi di dire e di parlare. Dal momento che non sono richiesti risultati, ma solo partecipazione, per i bambini è un piacere, stanno tutti attentissimi.

Nelle classi ci sono tanti bimbi stranieri. Loro come affrontano questo progetto?

Premesso che il nostro dialetto non lo conoscono né gli uni né gli altri, partono tutti ad armi pari. Comunque gli stranieri si divertono, ci provano e sono interessati quanto gli altri. Pensa che quando mi incontrano per la strada mi chiamano “la maestra del dialetto!”.

C’è qualche genitore che pensa che il dialetto confligga con l’italiano e non è contento di questi progetti?

Un tempo il dialetto sovrastava l’italiano che veniva improvvisato traducendo il dialetto, ne venivano fuori strafalcioni d’ogni sorta, ma oggi questo non esiste più e il dialetto oggi è una memoria da salvare per la cultura che racchiude. Qualcuno dice che è meglio imparare l’inglese, ma questo non c’entra proprio nulla. Uno può e deve imparare l’inglese, ma può anche avvicinarsi alla lingua dei nonni solo a titolo di curiosità.
Uno non esclude l’altro.

Pensi che il dialetto abbia ancora pochi anni di vita?

Non so cosa si intenda per pochi, comunque sarà sempre in calo perché piano piano si estinguerà insieme alle persone che lo parlano.

Che cosa possiamo fare oltre a proporlo ai più piccoli?

È una mia grande passione tradurre in italiano parole dialettali e inserirle nel contesto della lingua italiana parlata. Piano piano queste parole che hanno una forte valenza semantica, potrebbero inserirsi prepotentemente nel dizionario di italiano. In fondo la lingua italiana ultimamente produce pochissime parole nuove. Invece di tempestarla di inglesismi, infiliamoci le nostre vecchie parole.

Un esempio?

Tipo: ha una gran gazzuria, prendi una gugliata di filo, non gniccare… e così via.

a cura di Roberta Tomba