Nei giorni scorsi, su Il Piccolo, abbiamo pubblicato la storia di Armand: un ragazzo di 26 anni che da quasi metà della sua vita vive a Faenza. È arrivato dall’Albania da solo, a 14 anni, con lo zaino pieno di incertezze e la volontà — quella sì ben chiara — di costruirsi una vita. In questi dodici anni ha studiato, lavorato, mantenuto il fratello minore, pagato le tasse, costruito amicizie, radici. Ha fatto tutto quello che una comunità civile può auspicare da chi arriva da fuori.
Una di quelle storie virtuose che dovrebbero farci riflettere. Un punto di vista diverso per leggere la realtà che ci circonda, andando oltre gli stereotipi. Come spesso accade, articoli di questo genere sui social dividono. Questo di per sé non è un male: il dibattito è una delle chiavi fondamentali della democrazia e di una comunità. Il problema è quando il dibattito è viziato dalla disinformazione e da un rancore che va al di là dei contenuti ed è segnale di qualcos’altro.
Sotto l’articolo troverete tanti i messaggi di stima, tanti i lettori che si sono emozionati e riconosciuti nella tenacia di questo giovane. Ma, accanto a questi, sono comparsi anche commenti su cui è bene soffermarsi.
Tra questi:
“Cosa se ne fa della cittadinanza italiana? Vuole fare politica?”
“A che gli serve, se è cittadino europeo?”
“Ora che guadagni bene dovrebbe ripagare gli anni passati a carico dei nostri servizi sociali.”
“Onesto? Come quelli che ti rubano in casa.”
“Un’altra cazzata delle sinistre.”
Ci sarebbe da scoraggiarsi, ma preferiamo fare l’opposto: metterci in gioco e sciogliere alcuni nodi. Perché è nei momenti di polarizzazione che il giornalismo ha il dovere di accendere una luce in più, e non di spegnerla.
A cosa serve la cittadinanza?
Cominciamo da qui. La cittadinanza serve eccome. Non è solo un timbro su un documento: è ciò che consente di partecipare pienamente alla vita del Paese. Significa poter votare, concorrere per un posto pubblico, viaggiare liberamente in Europa senza doversi giustificare. Significa, banalmente, sentirsi pienamente “di casa”. Serve, soprattutto, per uscire da una condizione sospesa, tra rinnovi di permessi di soggiorno, da un “quasi” che può durare una vita intera.
Oggi chi come Armand è residente regolarmente da 12 anni, lavora e paga i contributi, non ha ancora diritto a tutto questo (alcuni dei commentatori non sapevano poi che l’Albania non è all’interno dell’Unione europea). Non può votare nemmeno alle comunali. E la domanda di cittadinanza — che si può fare dopo 10 anni di residenza — ha tempi di attesa che vanno dai 2 ai 4 anni. Armand, ad esempio, ha già inoltrato la richiesta da oltre un anno e gli è stato detto che dovrà attendere ancora almeno un altro anno e mezzo.
E no: la cittadinanza non si ottiene in automatico, come qualcuno pensa. Non viene data a “stranieri che vengono nel nostro Paese a delinquere”. Ci vogliono requisiti stringenti: reddito sufficiente, conoscenza della lingua italiana (almeno livello B1), assenza di reati. Non basta “esserci”. E quindi, contrariamente a certe paure o slogan, non è vero che con il referendum si “regalerebbe” la cittadinanza a chiunque. Anche se i tempi si riducessero a 5 anni, resterebbero gli altri requisiti. Nessuna scorciatoia per chi non rispetta le regole.
La cittadinanza non è un colpo di spugna: resta negata a chi ha commesso reati, come giusto che sia. Il rispetto delle regole è la base per ogni convivenza. Non tutte le storie di immigrazione sono come quella di Armand, ma proprio per questo è importante distinguere e valorizzare chi si impegna.
Il pregiudizio del “non basta mai”
C’è poi un altro problema: che anche quando uno “fa tutto giusto”, non basta mai. Armand non ha mai chiesto sussidi. Ha lavorato mentre studiava, si è mantenuto da solo, ha sostenuto economicamente il fratello minore. Oggi ha un lavoro stabile, versa regolarmente tasse e contributi. Eppure qualcuno ha scritto: “Ora che guadagni, dovrebbe restituire tutto quello che ha preso dai nostri servizi”. Ma cosa ha preso, esattamente? Dove sarebbe questa “debito”? Non possiamo fare finta che basti pronunciare le parole “straniero” o “cittadinanza” per evocare un’immagine di sfruttamento o di parassitismo. Senza contare poi che – in un contesto come quello italiano di inverno demografico – sono migliaia di questi lavoratori che, con i loro contributi, permettono di garantire tanti servizi.
“E allora in Svizzera…”
Tra i commenti c’è quello del “benaltrismo geografico”: “Nemmeno mio figlio che vive in Svizzera da 11 anni è cittadino, quindi perché Armand dovrebbe esserlo?”
Ecco: in Svizzera, proprio Armand avrebbe probabilmente già la cittadinanza. Per i minorenni, infatti, gli anni tra i 10 e i 20 contano doppio per la residenza. Tradotto: se vivi lì da ragazzino, puoi diventare cittadino più facilmente. Semplicemente, in quel Paese si è deciso che chi cresce in un posto, chi ci va a scuola, chi ne assorbe la lingua e la cultura, è giusto che diventi parte piena della società. Non un “ospite” a tempo indeterminato. In ogni caso, il punto non è imitare acriticamente altri Paesi. Ma neppure blindare le nostre posizioni in base a un “si è sempre fatto così”. Guardare come fanno gli altri può servire a migliorare anche noi.
La paura di perdere sé stessi
C’è un punto più profondo da affrontare, però. Perché questa rabbia, questa insofferenza anche davanti a storie così nitidamente positive?
Forse perché oggi tanti italiani si sentono dimenticati. Si sentono in coda, mentre altri sembrano “saltare la fila”. La retorica del “prima gli italiani” fa presa perché in troppi non vedono più un futuro chiaro. E allora si cerca un colpevole. E allora si scarica il nervosismo sui più vicini, sui più visibili. E chi è visibilmente “diverso” — per accento, per storia, per passaporto — diventa il bersaglio perfetto. Questo è il grande segnale che emerge da questi commenti: ci sono tanti cittadini – italiani e non – sempre più in difficoltà a livello lavorativo, economico e sociale. Questi i temi che dovrebbero essere al centro dell’agenda politica. La soluzione facile invece? Trovare un colpevole, mentre tutto resta così com’è. La rabbia non va ignorata. In tanti si sentono lasciati soli, italiani e non. Ma rispondere a questa solitudine con altri muri non risolve il problema: anzi, lo acuisce. Serve una politica più equa per tutti.
Oltre la polarizzazione destra e sinistra
“Un’altra cazzata delle sinistre”, ha scritto un commentatore. Il referendum dell’8-9 giugno sulla cittadinanza pone domande complesse. Ridurlo a una battaglia “destra vs sinistra” significa tradirne il senso. E ci ingabbia nella polarizzazione del dibattito, vedendo i nostri interlocutori come nemici e non come altre persone che si confrontano su questo tema È una questione di visione: chi vogliamo essere come Paese? È giusto che chi cresce qui, lavora qui, mette radici qui — e non ha commesso reati — possa diventare italiano? Non c’è una risposta giusta a priori: proprio per questo è importante arrivare alla scelta del voto consapevoli di che cosa si tratta, senza farsi condizionare da una retorica “noi buoni” e “loro cattivi” che, da ambo le parti, ha stancato e nuoce alla democrazia.
La sfida della convivenza: non buonismo, ma responsabilità
Accogliere non è semplice. Non lo è mai stato. Richiede regole, mediazione, valori condivisi. Ma allo stesso tempo, richiede giustizia. Se una persona vive qui da anni, lavora, cresce figli, paga le tasse e rispetta le leggi, non è più un estraneo. È parte della comunità. Includere non è un favore, è una scelta di civiltà. Non si parla di “dare via” qualcosa. Si parla di riconoscere ciò che già c’è. E di farlo con intelligenza e rispetto per tutti.
“Non si può lasciare fuori dalla città – scrive l’arcivescovo di Ferrara monsignor Perego – oggi con un’attesa fino anche a 14 anni, per motivi burocratici, mentre negli altri Paesi europei l’attesa media è di sette anni – chi lavora, studia, si sposa, ha un figlio in Italia. Una città per vivere non può escludere, ma accogliere le persone che provengono da un altro Paese, facendole sentire effettivamente un bene per la città, cittadini e cittadine. Nel corso della storia, il ritardo della cittadinanza o addirittura la mancanza della cittadinanza ha significato mancanza di libertà, schiavitù, precarietà, discriminazione. Oggi il ritardo della cittadinanza rischia di indebolire quella ‘uguaglianza sostanziale‘ delle persone affermata dall’articolo 3 della Costituzione”.
Multiculturalità non deve significare confusione. E nemmeno ghetti. Significa conoscenza e arricchimento reciproco. Ma perché sia davvero un arricchimento, servono valori comuni, che vanno accettati, condivisi e ridiscussi: al centro c’è la Costituzione. Non relativismo, ma dialogo. Non appiattimento, ma confronto. Non individualismo, ma comunità. È questo che ci chiede il tempo in cui viviamo. E la responsabilità va tanto a chi accoglie, quanto a chi viene accolto, nell’accettare le regole del gioco.
Tante nostre scuole sono già multiculturali. Ne abbiamo parlato di recente anche sul Piccolo. I nostri figli crescono in classi miste, con compagni nati in Italia da genitori stranieri. Il futuro è già cominciato. Ignorarlo, o combatterlo, serve solo a restare fermi — o peggio, a tornare indietro. La sfida è invece trovare strade nuove. Includere non significa rinunciare alla propria identità, ma renderla più solida confrontandola con altre. I nostri valori si rafforzano se diventano un punto di riferimento anche per chi arriva.
Fratelli tutti, senza perdere la nostra identità.
La cittadinanza non è una medaglia: è un patto
Armand ha scelto questo Paese. Lo ha fatto con fatica, giorno dopo giorno. Ha rispettato le regole, ha imparato la lingua, ha costruito qualcosa. La cittadinanza non è un premio. È un patto. Una stretta di mano tra una persona e una comunità. E dire “sì” a questo patto — quando tutte le condizioni ci sono — non è buonismo. È giustizia. È intelligenza. È visione. Le regole del gioco? 10 o 5 anni? Vanno decise assieme e le varie opzioni di voto o astensione del referendum sono tutte legittime. L’importante è non farsi condizionare da pregiudizi, disinformazione o polarizzazioni.
Sul caso specifico della testimonianza narrata, un’ultima riflessione. Se non siamo capaci di riconoscere il merito, se anche davanti all’impegno rispondiamo con sospetto, allora forse la domanda vera è un’altra: quali sono i valori in cui crediamo?
Samuele Marchi














