Era un venerdì afoso e opprimente a Bulo Yak, il mio villaggio, quando un uomo bianco arrivò. La sua figura imponente e la folta barba che incorniciava il volto lo facevano notare immediatamente. La sua pelle, pallida e arrossata sotto il sole implacabile del Basso Giuba, era segno della fatica e del lungo viaggio. Indossava una veste bianca legata in vita da una corda di canapa, e i suoi sandali di cuoio erano logori e consunti. Il suo aspetto tradiva stanchezza e preoccupazione, ma nei suoi occhi chiari c’era un barlume di fiducia. Si chiamava Padre Pietro Turati. L’uomo non era solo: lo accompagnava una suora minuta e delicata, la cui esile figura contrastava con la robustezza del suo compagno. Il suo abito bianco e il velo da cui sfuggivano ciocche di capelli grigi esprimevano semplicità, ma nei suoi gesti si percepiva una determinazione ferrea. A differenza del missionario, lei si muoveva con sicurezza, parlava perfettamente il Kizigua e mostrava una profonda familiarità con la nostra cultura aveva un nome strano, Suor Crisostoma. Era stata proprio lei a cercare mio padre, sapendo della sua fama di guaritore.
Quando l’uomo sollevò la veste per mostrare la gamba destra, la gravità della sua condizione fu subito chiara. Una piaga infetta segnava la carne: la pelle attorno era gonfia, arrossata, e i bordi violacei. Un liquido denso e giallastro fuoriusciva dalla ferita, emanando un odore acre di putrefazione. Il dolore doveva essere insopportabile, e la mancanza di medicine europee rendeva l’uomo inquieto, come se si trovasse di fronte a un destino incerto. La suora spiegò la situazione a mio padre con un tono calmo ma carico di urgenza. “È da più di quindici giorni che cerchiamo di curare questa piaga” disse, preoccupata. “Ci hanno detto che solo lei può aiutarci“.
La sfida di mio padre
Il villaggio di Bulo Yak era immerso nella tipica vegetazione rigogliosa della regione, con il fiume Giuba che scorreva pigro nelle vicinanze. Le capanne di paglia e fango formavano un cerchio attorno all’albero di tamarindo, centro delle decisioni collettive. L’aria umida e soffocante trasportava l’odore della terra e delle piante medicinali. In questo scenario, mio padre si era guadagnato una grande fama per le sue conoscenze sulle erbe e i rimedi tradizionali. Mio padre osservò la piaga con attenzione, i suoi occhi scuri erano concentrati, riflessivi, ma pieni di una calma rassicurante. Con gesti sicuri e precisi, preparò un decotto con delle foglie essiccate, note per le loro proprietà antisettiche e cicatrizzanti. Le fece bollire fino a ottenere un liquido scuro e denso, che iniziò a versare delicatamente sulla ferita. Il missionario si contorse per il dolore, il suo volto irrigidito dalla sofferenza, gli occhi chiusi stretti in un disperato tentativo di resistere. Il liquido caldo scivolava sulla ferita, bruciando il tessuto infetto e purificando la carne. Il suo corpo tremava, e il sudore scorreva copioso sulla fronte, bagnando la sua barba. Dopo aver disinfettato la ferita, mio padre prese il suo coltellino affilato e, con mano ferma, iniziò a rimuovere i margini infetti. Il missionario, un uomo bianco, il primo che mio padre avesse mai curato, tremava visibilmente, nonostante i suoi sforzi per mantenere il controllo. Ogni taglio era preciso, rapido, ma il dolore era insopportabile. Quando mio padre prese un bastoncino infuocato e cauterizzò la ferita, il missionario si contorse violentemente, emettendo un gemito soffocato che fece rabbrividire tutti.
Io ero lì, in silenzio, immobile, a pochi passi da lui. Ricordo che tenevo il fiato, come se anche solo respirare potesse rompere quell’equilibrio fragile tra la vita e la morte. Mio padre, concentrato e silenzioso, continuava a operare, mentre l’intero villaggio si era raccolto nel nostro cortiletto, trattenendo il respiro. Era la prima volta che un bianco si faceva curare da uno stregone. Non era solo un intervento: era una sfida al tempo, al dolore, alla diffidenza. Anche la suora era lì, inginocchiata accanto al missionario, le mani giunte in preghiera, lo sguardo rivolto a mio padre come a un essere sospeso tra il terreno e il divino. Io osservavo tutto, rapito. E dentro di me cresceva una sensazione profonda, quasi mistica: mio padre non era un uomo qualunque. Aveva davvero poteri sovrannaturali. Il modo in cui si muoveva, la calma imperturbabile, la sicurezza nei gesti…era come se la malattia rispondesse alla sua volontà.
Una volta completata la cauterizzazione, mio padre preparò una pasta con foglie fresche di acacia e la applicò con delicatezza sulla ferita aperta, poi avvolse il tutto con una grande foglia di banana, con gesti rituali, attenti, meticolosi. Il missionario, esausto e madido di sudore, tremava ancora, ma nel suo volto, stravolto dal dolore, si intravedeva una piccola luce di speranza. Sembrava guardare mio padre con un rispetto nuovo, come se, nonostante tutto, avesse compreso di trovarsi davanti a un guaritore vero. Mio padre si fermò accanto all’uomo, il volto impassibile. Ma nei suoi occhi – che solo io sapevo leggere – c’era una lieve ombra, una silenziosa preoccupazione. Anche per lui, questa era una prova. Una prova estrema del potere della tradizione, della sapienza antica, di fronte all’urgenza brutale della malattia. Io, suo figlio, lì accanto, sentivo esplodere il petto d’orgoglio. Volevo essere come lui. Volevo imparare ogni erba, ogni gesto, ogni sguardo. Volevo un giorno avere anch’io mani così sicure e occhi così profondi. Ma il silenzio che seguì il trattamento era denso. Nessuno parlava. Il villaggio tratteneva ancora il fiato. Nessuno sapeva se ce l’avrebbe fatta. Eppure…qualcosa ci diceva che forse sì. Forse, ancora una volta, la vita avrebbe ascoltato l’antico sapere.

La proposta del missionario
Ogni mattina, il missionario si presentava per le medicazioni, e con il passare dei giorni era diventato amico e confidente di mio padre. “il piccolo Omar ti può fare da aiutante in questo periodo, che hai tanti clienti compreso l’uomo bianco” Disse mia madre con distacco. L’idea di mia madre era di procrastinare il mio ritorno alla madrasa Al sesto giorno, la piaga del bianco era quasi guarita. Il missionario, ormai sicuro della sua guarigione, si mostrava rilassato, quasi sereno. Era una calma che traspariva non solo dai gesti, ma anche dal tono della sua voce. La luce del mattino filtrava timida dalle pareti in argilla della nostra casa, disegnando ombre irregolari sul pavimento. La capanna era
semplice, con l’essenziale: stuoie, un piccolo tavolino di legno grezzo e qualche sgabello traballante. Il missionario era lì, seduto sul suo sgabello preferito, intento a ricevere la sua medicazione quotidiana per quella piaga che, ormai, pareva prossima alla guarigione. La piaga era quasi chiusa, e forse proprio per questo, quel giorno, il missionario mostrava una serenità rilassata e quasi distesa, come se la prospettiva della guarigione gli avesse tolto un peso dal cuore e ne avesse riempito lo sguardo di una calma contagiosa. Mio padre stava accanto a lui, come sempre, con quella attenzione che riservava agli ospiti, ma anche con una punta di affetto. I due, ormai, erano diventati quasi amici, compagni di quelle conversazioni che affrontavano tutto, dal modo migliore per alleviare il dolore della piaga fino alle stranezze dei costumi europei, argomento che il missionario trattava sempre con grande fervore. E fu proprio in quel momento, come un lampo inatteso, che il missionario si voltò verso mio padre con un sorriso sornione e gli disse: “Omarino“, così mi chiamava “mandatelo nella nostra scuola a Ng’Ambo, può imparare l’italiano, magari un giorno potrà andare in Italia a studiare e, chissà, forse diventare un dottore”. La frase sospesa nell’aria sembrò cristallizzare ogni suono. Mio padre rimase in silenzio, assorto, con il capo leggermente inclinato come a riflettere. Dopo qualche secondo, pronunciò quelle parole che per me furono come un sospiro di sollievo: “Adesso ci penso”. La decisione, comunque, sembrava ancora lontana dall’essere presa.
Quella sera il mio destino iniziò a prendere una piega diversa, ma anche il destino del missionario. Fu quella sera, sotto un cielo velato di stelle e di silenzi, che mia madre iniziò il suo piano. Aveva atteso il momento giusto con pazienza felina, com’è nell’arte antica delle donne del nostro villaggio: osservare, ascoltare, valutare, e colpire solo quando ogni elemento è al proprio posto. Il missionario era ormai diventato parte della nostra quotidianità, e lei ne aveva studiato ogni parola, ogni gesto. Aveva capito che quell’uomo portava con sé non solo la sua piaga, ma anche una proposta per il futuro. E sapeva che, in fondo, quell’offerta non era per lui: era per me. Quella sera, mentre mio padre era seduto davanti al fuoco, avvolto nel suo silenzio riflessivo, con il volto scolpito dalle fiamme tremolanti , mia madre si avvicinò in punta di piedi, come faceva sempre quando voleva parlargli senza opporvisi. Aveva portato con sé una ciotola di ugali e qualche pezzo di pesce essiccato – le sue armi, piccole e affilate come le parole che stava per usare. Si sedette accanto a lui, senza fretta, e iniziò con tono sommesso: “Il missionario ha parlato del piccolo Omar, oggi”. Mio padre grugnì, senza distogliere lo sguardo dal fuoco. “Vuole portarlo nella scuola a Ng’Ambo. Dice che potrebbe imparare a leggere e scrivere in italiano”. Silenzio. Le fiamme danzavano, crepitando come a tenere compagnia ai pensieri di mio padre. Fu allora che lei mise in pratica la parte più sottile del suo piano. Con voce ferma ma dolce, come solo lei sapeva fare, disse: “Che differenza c’è tra una scuola e l’altra? Anche la scuola coranica insegna a memoria parole che i bambini non capiscono. Anche là si obbedisce, si piega il capo, si ascolta. Non è forse la stessa disciplina? Lo stesso silenzio che porta alla saggezza?” Mio padre socchiuse gli occhi, colpito dalla domanda più che dalle parole. “E poi”, continuò, “né l’una né l’altra scuola tocca ciò che è davvero nostro. I nostri spiriti. I nostri morti. Il culto degli antenati. Quello resta, sempre. Quello non si insegna: si respira, si tramanda”. Parlava piano, ma ogni parola era come un tamburo ben assestato nella coscienza di mio padre. “Le religioni degli stranieri sono religioni di facciata”, disse, con un sorriso appena accennato. “Belle per le cerimonie, utili per i bianchi e per chi vuole trattare con loro. Ma noi, tu ed io, sappiamo dove sta la verità”.
Fu allora che la vidi: la scintilla che attraversò lo sguardo di mio padre, come se qualcosa di inatteso si fosse incrinato dentro di lui. Non era sconfitta, ma piuttosto il riconoscimento di una verità inconfessabile. Perché sapeva, in fondo, che lei aveva ragione. Sapeva che il futuro si muoveva, inesorabile, e che le donne – creature di focolare e d’ingegno – sapevano vederlo prima degli uomini. Con la calma di chi ha già vinto, mia madre concluse: “Lascialo andare a Ng’Ambo. Vedrà il mondo. Imparerà a parlare con i loro libri, ma continuerà a camminare con i piedi nella nostra terra”. Mio padre non rispose subito. Si alzò, guardò il cielo. Forse stava cercando l’approvazione dei suoi antenati, forse stava semplicemente lasciando che la sua testardaggine si dissolvesse nel buio della notte. Poi, con voce bassa e roca, disse: “Va bene”. Non aggiunse altro. Ma per mia madre fu sufficiente. Si alzò, con la grazia leggera di una vittoria nascosta, e si allontanò senza voltarsi, lasciando che l’ultima parola, come sempre, fosse la sua. In quel momento compresi che, pur vivendo in un mondo patriarcale, era lei – piccola, silenziosa e ostinata – a muovere i fili della nostra vita. E io, inconsapevole protagonista di quel disegno, avrei presto lasciato la scuola coranica portando con me il fuoco del nostro culto, la voce dei miei antenati, e un biglietto verso un futuro che profumava di promesse e d’incertezze, ma senza vergate nella schiena.
Omar Giama
(5- prosegue…)