Oltre mille delegati di cui 168 vescovi (sette i cardinali), 252 sacerdoti, 34 religiosi e religiose, 17 diaconi, 530 laici di cui 253 uomini e 273 donne si sono dati appuntamento a Roma dal 31 marzo al 3 aprile scorso per la Seconda Assemblea sinodale delle Chiese in Italia. Una tappa del Cammino Sinodale iniziato nel 2021, che ha attraversato le fasi narrativa, sapienziale ed ora quella profetica. L’obiettivo era l’approvazione del documento con le proposizioni – le indicazioni per le scelte da compiere – da sottoporre all’assemblea dei vescovi che si sarebbe dovuta tenere alla fine di maggio.

La delegazione diocesana

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La nostra Diocesi è stata presente con la sua delegazione composta da Cristina Dalmonte, Marino Angelocola e monsignor Michele Morandi, vicario generale. L’assemblea ha discusso sul documento contenente le 50 proposizioni. Ne è uscito un giudizio piuttosto critico: il testo non è stato ritenuto esaustivo e coerente né con il cammino svolto, né con i documenti in precedenza elaborati. «I delegati non hanno avuto timore a esprimersi a difesa non di idee proprie – racconta Cristina – ma di un cammino durato quattro anni. Tanta è stata la ricchezza, che non era possibile racchiuderla nelle poche righe che ogni proposizione presentava. Questo confronto ci ha permesso di toccare con mano il profondo respiro della Chiesa». La compagine assembleare si è poi suddivisa in 28 gruppi di una trentina di persone ciascuno, con il compito di modificare ed emendare le proposizioni. L’assemblea ha deciso che il testo proposto non era ancora maturo per essere approvato e votato, e ha preferito convocare un’ulteriore Assemblea ad ottobre 2025 per dare il tempo a presidenza e comitato di accogliere e integrare gli apporti pervenuti. Per questo motivo anche l’Assemblea dei vescovi è stata rinviata a novembre 2025. «Abbiamo elaborato gli emendamenti – precisa Cristina – cioè le rettifiche al testo delle proposizioni».

«Dall’io al noi: un processo, non solo un documento»

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Fondamentale è stato il metodo di lavoro condiviso, nel rispetto di ognuno. «Conosciamo la difficoltà dell’agire sinodalmente – ha aggiunto Cristina – Solo se ci disponiamo in ascolto dello Spirito che è nell’altro e accogliamo questo dono, possiamo passare dall’io al noi, generare il popolo, essere Chiesa. Conosciamo anche cosa comporta il lavorare insieme e la fatica di giungere a una convergenza. I momenti di tensione fanno parte della vita delle comunità e sono esperienze spirituali, se vissuti – come è successo in questa Assemblea – in modo costruttivo. Non stiamo solo scrivendo testi, ma vivendo processi, cercando di camminare insieme. Per questo il peso dei documenti prodotti è da misurare sul cambiamento del nostro essere Chiesa». Sull’esperienza del Sinodo si è espresso anche il vescovo Mario Toso, lanciando una sfida. «Nel documento finale dei vescovi al livello universale – ha detto – ci sono molte proposte, ma la risposta spetta noi. Di fronte all’evidente calo di vocazioni, servono persone».

Don Michele Morandi: «Non è una ricetta, ma un cammino»

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«Abbiamo buone basi, ma servono coraggio, formazione e corresponsabilità». Con queste parole il vicario generale della Diocesi, monsignor Michele Morandi sintetizza quanto vissuto a Roma durante la seconda assemblea del Cammino sinodale delle Chiese in Italia. Don Michele ha ricordato come l’assemblea sia stata molto partecipata, con oltre 50 interventi – e molti altri che non hanno trovato spazio per ragioni di tempo – che hanno espresso osservazioni e emendamenti di grande interesse. «Il vero problema – ha spiegato – è stato sottovalutare quanto fosse difficile arrivare, in pochi giorni, a un testo maturo da sottoporre ai vescovi. È comprensibile perché è la prima volta che viviamo un’esperienza così. C’è stata una grandissima attenzione da parte della presidenza nell’ascoltare, accompagnare e prendere anche decisioni scomode».

La sinodalità richiede uno sguardo integrato

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Poi un richiamo a non ridurre la sinodalità solo all’ascolto. «È il primo passo, necessario – ha affermato – ma occorre passare anche all’elaborazione, al discernimento e alla decisione. La sinodalità richiede uno sguardo integrato, capace di andare oltre la propria prospettiva personale, per giungere a decisioni condivise che spettano, nel loro compimento finale, al collegio dei vescovi in comunione con il Papa, per garantire che siano conformi al Vangelo e alla Tradizione degli Apostoli». Don Michele ha anche sottolineato come alcuni temi emersi nel dibattito sinodale non abbiano trovato spazio nella narrazione mediatica, che ha preferito soffermarsi su argomenti come omosessualità e trasparenza, che non sono stati la parte dominante nei lavori. Centrali sono stati invece i temi della famiglia, dell’ecologia integrale, dell’impegno sociale, della formazione, dell’iniziazione cristiana, e la necessità di indicazioni concrete. Don Michele ha poi sottolineato come molti dei temi emersi siano già al centro del lavoro della Diocesi, come la formazione, l’evangelizzazione, la sinodalità e la ministerialità. «Abbiamo materiale molto buono su cui lavorare. Le linee guida sono già state assunte, ma occorre sposarle davvero e mettersi in cammino con determinazione». Don Michele ha richiamato l’importanza di non attendere soluzioni ideali. «Bisogna muoversi partendo dal reale – ha precisato -. Alcuni si aspettano coinvolgimenti facili, ma evangelizzare costa fatica. Non è solo annunciare, ma vivere nella liturgia e nella carità. Se aspettiamo una soluzione che non richieda impegno e conversione personale e comunitaria, non la troveremo mai». Il vicario generale ha ribadito l’importanza della formazione. «Abbiamo bisogno di mettere insieme le teste più preparate, i cuori più palpitanti e le mani più laboriose, per entrare in profondità e cogliere il punto di contatto con l’uomo e la donna di questo tempo che cercano di “toccare Dio”, ed elaborare una sintesi culturale credibile ed evangelica». Ha poi ricordato che «non bastano operatori solitari. Serve un cammino come quello di Gesù con i suoi discepoli: fatto di parole, azioni, ascolto e decisione condivisa. Il sensus fidei non nasce da improvvisazione o emotività, ma da una fede condivisa e illuminata e trova la sua maturazione nel sensus ecclesiae». Il suo intervento si è chiuso con uno sguardo fiducioso, ma realistico. «Il documento sinodale non ci offrirà una ricetta magica – ha concluso -. È un canovaccio che chiede di essere sviluppato. Se vogliamo una Chiesa sinodale, dobbiamo prendere sul serio ciò che è già davanti a noi».