Intervista all’infermiere romano appena tornato dalla Striscia di gaza dove ha lavorato per Emergency: “La popolazione è stremata, l’unica cosa che desidera è il cessate il fuoco”
“La tregua rappresenta la speranza di poter ricominciare a pensare al futuro”
“Per la popolazione la tregua rappresenta la speranza di poter ricominciare a pensare al futuro. È solo l’inizio, ma è cruciale per ricostruire un minimo di normalità”.
Roberto Guerrieri, 43 anni, infermiere romano, è tornato da poche settimane dalla Striscia di Gaza, dove ha prestato la sua opera per circa due mesi per conto di Emergency, l’associazione fondata nel 1994 dal chirurgo Gino Strada.
Dallo scorso agosto Emergency è impegnata a Gaza, nell’area di al-Mawasi (governatorato di Khan Yunis), per costruire una clinica ad Al Qarara dove offrire, oltre all’assistenza medica di base, anche un servizio di stabilizzazione di pazienti con traumi, il pronto soccorso e ambulatori pediatrici e per la salute riproduttiva della donna (accompagnamento pre e post-parto).
Guerrieri si è occupato di questo progetto supportando materialmente anche lo staff medico locale che dovrà poi portare avanti la nuova clinica, che avrà una struttura fissa e per questo destinata a rimanere al servizio della popolazione dell’enclave palestinese.
Nel frattempo, Emergency è operativa anche in un centro di salute primaria, sempre ad al-Mawasi, insieme ad una ong palestinese, la Cfta (Culture and free thought association), dove vengono visitati circa 170 pazienti al giorno, moltissimi dei quali bambini.
“La tregua apre ad una prospettiva per il futuro. Oggi a Gaza si lotta per sopravvivere”
Le notizie della tregua, dice al Sir l’operatore di Emergency, “fanno sperare per un futuro con un minimo di prospettiva. La popolazione è stremata e l’unica cosa che desidera è proprio il cessate il fuoco. Oggi a Gaza si lotta per sopravvivere, per arrivare a domani. La tregua serve ai gazawi per poter ricominciare a muoversi e a immaginare un futuro”.
Guerrieri, può descrivere la situazione a Gaza in base a ciò che ha visto e alle ultime notizie in suo possesso?
La situazione a Gaza è drammatica: la popolazione è allo stremo, mancano beni di conforto e di prima necessità come cibo, acqua e carburante, indispensabile anche per la desalinizzazione dell’acqua.
Il 90% della popolazione non ha più una casa e vive in tende o campi profughi improvvisati. C’è bisogno di tutto, mentre si continua a vivere sotto la costante minaccia di bombardamenti, anche nella cosiddetta zona umanitaria, dove operiamo noi e vive ormai la maggior parte della popolazione.
Anche lì, però, si verificano frequenti operazioni militari. Al Qarara è un’area carente di servizi sanitari. Stimiamo che la clinica avrà una popolazione di riferimento di circa 10.000 persone, se non di più, perché lì intorno ci sono parecchi campi profughi.
Va detto che la maggior parte delle strutture sanitarie funzionanti si trova proprio nella zona umanitaria, ma si lavora in condizioni estremamente difficili. Manca il carburante per i generatori, e l’approvvigionamento di farmaci salvavita, analgesici, anestetici è a singhiozzo. Il personale sanitario scarseggia e gli ospedali governativi, che gestiscono principalmente traumi da combattimento, sono sovraffollati.
Quali sono le principali patologie, oltre a quelle legate al conflitto?
Ci occupiamo di salute primaria, e vediamo molte patologie croniche come diabete e ipertensione, aggravate dalla difficoltà di accedere ai farmaci. Sono pazienti che spesso arrivano da noi in condizioni acute.
Ci sono molte infezioni respiratorie dovute al freddo, patologie gastroenteriche legate alle pessime condizioni igieniche nei campi profughi dove i servizi igienici spesso sono latrine comuni per migliaia di persone.
Si registra poi un aumento della malnutrizione, soprattutto tra i bambini. Questi ultimi sono profondamente traumatizzati psicologicamente. Molti hanno visto distrutta la propria casa o hanno perso familiari. Bambini che non riescono più a parlare o spaventati anche solo da un termometro. Quasi tutti hanno perso un parente stretto se non l’intera famiglia.
Quella degli orfani sarà una delle urgenze da affrontare a Gaza, quando la situazione lo permetterà.
Al momento ci sono organizzazioni internazionali come Unicef e Unfpa (Fondo Nazioni Unite per la popolazione) che si occupano di protezione e salute mentale dei bambini, ma il bisogno supera le risorse disponibili e non basta nemmeno la forte rete informale di solidarietà.
Le notizie parlano anche di casi diffusi di violenza di genere dovuti alla situazione di estrema precarietà in cui vive la popolazione…
Come dicevo noi ci occupiamo di salute primaria, di salute generale, medicina interna o di base, pediatria, di salute riproduttiva.
I casi più gravi li indirizziamo a strutture mediche secondarie per le cure relative. I casi di violenza di genere, in aumento, vengono segnalati e indirizzati all’ong Cfta (Culture and free thought association) che se ne occupa in modo particolare in un campo profughi, gestito da donne, che ospita in larga parte nuclei che non hanno più una casa o un rifugio.
Si è creata, poi, una sorte di rete informale di accoglienza per cui c’è anche chi ha ancora un alloggio e lo condivide con altri rimasti senza.
In questo campo profughi, ‘al femminile’, Cfta offre un supporto psicologico principalmente a donne e bambini. Gli operatori hanno allestito delle zone sicure dove le mamme possono allattare, essere visitate da ginecologhe, avere un’ostetrica.
Con la guerra è venuta meno la protezione fisica per tante donne, cioè una casa, delle mura. Tante hanno perso la rete familiare che le proteggeva e si ritrovano a essere sole, indifese e a vivere in condizioni di totale promiscuità.
Daniele Rocchi (Agensir)