C’è un dato che pesa come un macigno sul nostro Paese: secondo il rapporto “Giovani 2024” elaborato da Eures per il Consiglio Nazionale dei Giovani e l’Agenzia Italiana per la Gioventù, oltre il 43 per cento degli under 35 in Italia percepisce uno stipendio mensile inferiore a mille euro. A questo si aggiungono un’inflazione crescente, affitti fuori controllo e un mercato del lavoro che troppo spesso offre solo contratti a termine, part-time involontari o “lavoro grigio”. È il ritratto di una generazione che lavora, e lavora duro, ma non riesce a costruire. È l’immagine di Giulia, che a 28 anni sogna di uscire dalla casa dei propri genitori, ma non può permettersi un affitto. È la fotografia di Fabio, che a 29 vorrebbe sposarsi, ma vive appeso dell’ennesima proroga di un contratto a tempo. È la storia di Luca, 26 anni, che ha lasciato l’attività in parrocchia perché «non ci sta dietro con il lavoro», dopo turni massacranti e malpagati.
Stop a una facile retorica
Troppe volte queste difficoltà vengono nascoste sotto il tappeto del dibattito pubblico, con la solita retorica dei giovani “choosy” o “pigri”. Ma è un racconto comodo solo per chi non vuole assumersi responsabilità. Fa indignare, certo, ma semplifica. E intanto si dimentica di dire che quel contratto rifiutato, dopo mesi di tirocini e colloqui, vale 1.200 euro lordi. È un modo facile per assolversi, mentre si delegittima la fatica di una generazione.
La fuga all’estero: dati in crescita
Un altro segnale che non si può ignorare è l’aumento delle partenze verso l’estero. Le emigrazioni nel 2024 sono cresciute del 20,5 per cento: si passa da 158mila a poco meno di 191mila italiani che hanno lasciato il Paese, molti dei quali giovani. Non si tratta solo di “cervelli in fuga”, ma anche di cuochi, camerieri, tecnici, artigiani. Non sta fuggendo chi ha fallito, ma chi non ce la fa più qua.
Dignità del lavoro e democrazia
Come Chiesa, non possiamo restare in silenzio. La dottrina sociale ci ricorda che il lavoro è vocazione, è dignità. E quando il lavoro manca, o è svilito, non viene meno solo un reddito, ma la possibilità di sentirsi parte viva di una comunità. Anche questa è una delle cause della crisi della democrazia che viviamo.
Per un’alleanza intergenerazionale
Non bisogna cadere nella trappola di chi trasforma il problema in uno scontro intergenerazionale. È una narrazione velenosa, che insinua divisione dove servirebbe alleanza. Non è colpa dei “vecchi” se i giovani faticano, così come non è vero che «una volta era meglio». Non servono confronti nostalgici, ma alleanze coraggiose. Genitori e figli, nonni e nipoti: generazioni diverse, unite da un bisogno comune di giustizia e di futuro. Dentro molte famiglie, questa solidarietà già esiste. Ora va resa visibile e politica.
Come comunità cristiana, possiamo offrire uno sguardo diverso. «La tutela, la difesa e l’impegno per la creazione di un lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale – hanno scritto i vescovi italiani nel Messaggio per il 1° maggio – costituisce uno dei segni tangibili di speranza». Parole che richiamano anche la Bolla di papa Francesco per il Giubileo. Le esperienze positive non mancano: in tante realtà delle nostre diocesi sono state presentate in convegni in occasione del 1° maggio. Ci sono giovani che innovano, che mettono in piedi cooperative, che ritornano alla terra, che fanno impresa con etica. Ma hanno bisogno di spazio, di fiducia, di strumenti.
Un primo passo? Smettere di etichettarli come scansafatiche. Il secondo? Iniziare davvero a costruire un lavoro migliore, per tutti. Perché non è vero che ai giovani manca la voglia. Manca un Paese che creda davvero in loro , nel presente e nel futuro, al di là del consenso elettorale effimero. E allora, forse, la domanda vera da porsi non è: «che futuro avranno i giovani?», ma: «che Paese saremo noi, se continueremo a ignorarli?».
Samuele Marchi
in foto: Progetto Policoro