Da un anno e mezzo, il faentino Alberto Emiliani dedica il suo tempo alle persone detenute nel carcere di Bologna come volontario dell’Avoc (Associazione volontari carcere). Professore di filosofia in pensione, ha scelto di mettere la sua esperienza al servizio di chi vive una condizione di marginalità estrema. Con alcuni di loro, iscritti alla Facoltà di Filosofia a Bologna, sta preparando diversi esami universitari. E così, tra lezioni su Cartesio e san Tommaso, si insegue una seconda possibilità, mettendo sempre al centro la persona, in tutta la sua complessità, e mai il reato commesso.

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Foto Agensir.

Intervista al prof. Alberto Emiliani, volontario Avoc: “Un detenuto mi ha detto che pagherebbe pur di poter lavorare. Questo mi ha fatto riflettere sull’importanza del lavoro come strada per il reinserimento”

Emiliani, come è iniziata la sua esperienza come volontario in carcere?

Grazie all’Ami (Amici mondo indiviso) di Faenza. Ho iniziato con l’affiancamento a due volontari esperti dell’Avoc. Insieme, entravamo nel reparto di alta sicurezza, dove, tra le altre, ci sono persone accusate di associazione mafiosa, in un regime particolarmente restrittivo. Superare dodici cancelli, lasciare tutti i miei oggetti all’ingresso, affrontare un contesto così denso di tensione umana è stato un impatto forte, ma illuminante. Ho trovato un’umanità che chiede rispetto e contatto.

Come funziona il volontariato Avoc?

Andiamo una o due volte alla settimana e abbiamo colloqui con diverse persone detenute che durano circa un quarto d’ora per ciascuno. Siamo lì, in particolare, per aiutarli a risolvere le problematiche che ci segnalano, che possono essere anche molto base: avere una felpa per l’inverno, un paio di occhiali nuovi… ma siamo lì soprattutto per ascoltare. Senza dare giudizi e, come sottolineava don Milani, distinguendo il reato dalla persona. È uno stare accanto a loro con tanta umanità, mettendosi sullo stesso piano pur con ruoli diversi. E qui emerge subito una grande fame di rapporti umani. Con le tre persone con le quali sto preparando gli esami universitari gli incontri durano di più, anche diverse ore.

Come mai ha portato la filosofia tra le mura del carcere?

Se la filosofia non serve alle persone, allora non serve a nulla. La filosofia parte dalle domande e dall’esperienza. Questo approccio è stato naturale per me. Poi, grazie a “Liberi di studiare”, un’associazione di docenti che segue studenti detenuti, ho iniziato a lavorare con alcuni di loro. Leggiamo Cartesio, Spinoza, Jung, e discutiamo. Le persone che scelgono di studiare filosofia in carcere lo fanno per motivi diversi: uno ha una tensione religiosa e vuole approfondire anche teologia; un altro scrive poesie e sogna di comprendere meglio sé stesso.

Che tipo di rapporto si crea con i detenuti?

Mi pongo come uno che potrebbe essere al loro posto, senza atteggiarmi a “salvatore”. Non dimentico mai la differenza dei ruoli, ma cerco di ascoltare e accogliere senza dare giudizio. Ciò che mi colpisce è l’autenticità di alcuni di loro: spesso trovo più verità qui dentro che fuori. Le persone detenute hanno fame di relazioni e di rispetto, e questo apre spazi per dialoghi significativi.

Ha trovato pregiudizi o ostacoli?

Molti pensano che entrando in carcere troverai un mondo ostile, ma non è così. È vero, in certi contesti si può respirare una certa tensione, ma mi ha stupito anche tanta normalità. Una volta ho scambiato un ergastolano per un collega universitario per il modo di discutere. Certo, ci sono differenze: alcuni si aprono subito, altri sono diffidenti. E c’è chi affronta enormi difficoltà psicologiche. Ho incontrato una persona in attesa di giudizio che ora vive nel limbo, e rilegge ogni giorno con ansia e disperazione migliaia di fogli di verbali. Ma c’è sempre un filo di umanità che si può tessere.

Cosa significa per loro lo studio?

Lo studio è una forma di libertà. Una ragazza, per esempio, mi ha confidato che si sente più libera in carcere, dove può concentrarsi su sé stessa e sulla sua crescita, che fuori, dove era prigioniera del mondo criminale. Filosofia, teologia, letteratura diventano occasioni per sviluppare un pensiero critico e ridare senso alla propria vita.

Come vive questo impegno?

Per me, in un certo senso, è qualcosa di naturale. Visitare i carcerati è un’indicazione evangelica. Vedo il mio servizio come un’occasione di arricchimento reciproco: se vedo qualcuno in fondo a un pozzo, sento che è mio dovere tendere una mano.

Che ruolo gioca la famiglia per le persone detenute?

La famiglia è centrale. Molti soffrono perché i legami si indeboliscono. Mi ha colpito un detenuto che, accusato di associazione mafiosa, mostrava un dolore profondo per la distanza dai suoi cari. Per alcuni, in prossimità della scarcerazione, ma che hanno perso il rapporto con la propria moglie, il pensiero della rottura familiare è più pesante del reato commesso.

Ci sono aspetti che l’hanno sorpreso?

La voglia di riscatto. Un detenuto mi ha detto che pagherebbe pur di poter lavorare. Questo mi ha fatto riflettere sull’importanza del lavoro come strada per il reinserimento. Tuttavia, la burocrazia è un ostacolo enorme: pochi riescono a trovare impieghi utili dentro o fuori il carcere.

Come potrebbe migliorare il sistema?

Occorre una rete più solida. Il carcere dovrebbe essere un luogo di recupero, ma spesso le difficoltà quotidiane lo rendono un limbo che lascia poco spazio alla riabilitazione. È fondamentale creare occasioni di contatto umano, dentro e fuori le mura, per dare a queste persone una possibilità concreta di cambiare strada. Come indicato dal cardinale Zuppi, si deve andare verso una vera giustizia riparativa.

Cosa le resta di questa esperienza?

Un’immensa lezione di umanità. Il carcere non è altro che un frammento del mondo: ci sono dolori, speranze, delusioni. Quando smettiamo di vedere i detenuti come persone, iniziamo a giustificare qualunque cosa contro di loro. Io, invece, vedo esseri umani, con la loro dignità, e sento che il mio compito è rispondere al loro bisogno di essere riconosciuti. Non è un caso che il Papa abbia deciso di aprire la Porta Santa in carcere, a Rebibbia.

Un messaggio per chi legge?

Entrate in contatto con chi è diverso da voi. Le sbarre possono dividere, ma il cuore e il rispetto costruiscono ponti. In fondo, la nostra umanità è la stessa, anche se segnata da storie diverse.

Samuele Marchi

Foto di copertina: Giampiero Corelli