In una Mostra di Venezia che ha scelto temi forti come aborto, eutanasia, estremismi (politici, più che religiosi), sessualità repressa e deviata, la sorpresa è nata dai “piccoli” film, quelli di sezioni minori. In questa 81esima edizione della mostra del Cinema, i premi sono sembrati ai più il risultato di un (inevitabile) esercizio di equilibrismo per non scontentare nessuno. Quello a mio modesto avviso più meritato è andato alla bolzanina Maura Delpero per il film “Vermiglio”, ambientato in Val di Sole nel 1944, la cui atmosfera e stile di regia hanno ricordato il grande maestro Ermanno Olmi. Il premio a Nicole Kidman, come migliore interprete femminile per un film (Babygirl), a mio avviso scadente, è parso un “doveroso” riconoscimento al cinema americano, altrimenti escluso dal Palmares.
Leone d’Oro al film “The room next door” di Pedro Almodovar
Lo stesso Leone d’Oro al film “The room next door” (“La stanza accanto”) ha il sapore del risarcimento a Pedro Almodovar per i premi sfiorati in passato e mai ottenuti. Intendiamoci: il regista spagnolo è un incantatore, una sorta di pifferaio magico che ti porta dove vuole. Affascina la sua ricerca cromatica, l’utilizzo degli spazi interni e soprattutto sa toccare le corde emotive, anche in tematiche come quelle legate al film in questione (l’eutanasia), la cui riflessione non può però essere guidata solo dall’emozione. Grazie alle perfette interpretazioni di Julian Moore e Tilda Swinton, si narra la storia di due amiche che casualmente si rincontrano dopo tanti anni, una delle quali malata di tumore. Su sua richiesta, l’amica la accompagnerà nelle ultime settimane di vita, fino al giorno in cui la malata deciderà di porre fine alla sua vita. Nessun ospedale, nessuna struttura, ma solo una villa in mezzo al bosco, per contemplare la bellezza della natura in attesa di chiudere gli occhi al mondo. L’intervento finale non sarà esterno, ma la stessa malata deciderà di assumere la fatale pillola. La pellicola non ha dubbi: Almodovar mette in scena l’eutanasia come atto di libertà che, nell’interpretazione del film, fa rima con dignità del malato e di pietà da parte di chi l’accompagna. Una libertà che però si esercita in una desolante solitudine. Quale distanza dal modo di affrontare il fine vita inaugurato 60 anni fa da Cicely Saunders, con le cure palliative, e così vividamente descritto nel libro di Emmanuel Exitu, “Di cosa è fatta la speranza”. Qui nascono le domande che attanagliano le coscienze laiche e credenti, sempre a confronto. Non volendo addentrarmi in queste righe nella discussione, pongo all’attenzione un particolare dell’opera: tutta la vicende mi sembra permeata di solitudine. La protagonista ammette il suo fallimento come madre, non ha (e forse non vuole?) la figlia a fianco, non c’è marito o compagno, non un medico, non un amico. Certo, qualcuno ha trovato, ma è una persona persa di vista da molti anni e incontrata casualmente. È una donna sola, abbandonata forse non esente da responsabilità. Non voglio forzare la mano al regista, ma mi pare significativo che la scelta finale sia il risultato di questa amara solitudine che non può che intravedere nel gesto finale l’unica soluzione.
La vera sorpresa “Vermiglio” della giovane regista Maura Del Pero
Come detto, la vera sorpresa si è rivelata l’opera di una giovane regista altoatesina Maura Del Pero, alla quale è andato il Gran Premio della Giuria per il film “Vermiglio”. Diretto in dialetto con attori non professionisti, racconta un anno di vita di un paesino nella Val di Sole. Siamo nel 1944, al termine della guerra. In paese giunge un giovane soldato disertore che conquisterà ben presto il cuore della giovane figlia del maestro elementare, vera e propria guida del paese. La regista utilizza uno stile rigoroso, asciutto, agendo quasi per sottrazione: i silenzi, le voci umane frammezzate dai rumori della valle, la guerra è sullo sfondo come un’eco lontana. Nel giro di un anno, tutto si risveglia, non solo la natura ma anche la curiosità dei bambini, gli amori dei giovani, la speranza dei vecchi. C’è profonda umanità nella vicenda, un’umanità povera, ma dignitosa, dove le asperità della vita sembrano far crollare i sogni delle giovani generazioni. È un linguaggio poetico, quello della regista che fa spazio non alle illusioni, ma alla realtà nuda e cruda. E se tutt’intorno si respira aria di pace per una guerra alle ultime battute, dentro la famiglia la pace si sta spegnendo, facendo i conti con le tribolazioni di una vita che non risparmia nulla, quando al sogno subentra la delusione, alla certezza l’amarezza, allo stupore dei bambini le lacrime di chi soccombe a un destino amaro. Prendo a prestito le parole del grande cantautore Leonard Cohen: «C’è una crepa in ogni cosa, ma è da lì che passa la luce». Basta un spiraglio. Ma è sufficiente per tornare a vivere.
Stefano Vecchi