Cento anni fa, nel 1921, Moacyr Barbosa, nasceva a Campinas, nello Stato di San Paolo, Brasile. E’ volato in cielo il 7 aprile 2000, raccolto nella sua malinconia, avvolto nella sua solitudine. Moacyr Barbosa era il portiere più bravo, idolo del Vasco da Gama, persona gentile e generosa. Fu lui che difese la porta della nazionale brasiliana contro l’Uruguay, nella partita del “Maracanazo”, ai mondiali del 1950, quando la sua vita cambiò per quel gol di Alcides Ghiggia, giocatore che poi, da oriundo, avrebbe vestito anche la maglia azzurra.
Difese la porta verdeoro in quel Brasile-Uruguay 1-2
Si giocava la sfida decisiva per il Mondiale, il Maracanà di Rio de Janeiro era strapieno di colori e felicità, duecentomila spettatori che non attendevano altro che ballare, all’infinito. La nazionale verde-oro era favorita: perché era la più forte, perché giocava in casa e non si possono tradire le aspettative di tutto un popolo. Il capitano dell’Uruguay Obdulio Varela, pieno di orgoglio e determinazione, dirà ai suoi, prima del match, che niente è compiuto, che tutto può succedere, basta crederci. E il calcio, come ormai ben sappiamo, non è una scienza esatta, il calcio è una incredibile, assurda, a volte dolorosa metafora della vita. Quel giorno il pallone non guardò alla festa brasiliana, ai canti e ai coriandoli di un carnevale da vivere per giorni e giorni, nella passione e nel delirio.
Tutto si risolve nel secondo tempo. Il gol del vantaggio del Brasile con Friaça, il pareggio di Schiaffino e, a undici minuti dalla fine, la rete di Ghiggia, per il trionfo della Celeste, la squadra dell’Uruguay. Barbosa, mentre si rialza dopo quella rete, si rende conto, immediatamente, del baratro in cui è caduto: vittoria dell’Uruguay, fine del Grande Sogno, restano solo disperazione e lacrime.
E un colpevole da trovare: e il responsabile sarà il portiere, che diventò, per sempre, un emarginato, un invisibile, il capro espiatorio di una sconfitta che si trasformò in un dramma collettivo. “Sogno sempre quel gol”, ripeterà con angoscia per tutta la vita: il suo incubo, il suo tormento. Ma non perderà mai la dignità. E resterà, per sempre, un campione tragico, ma così vero, così autentico. Venne messo ai margini dalla vita pubblica del paese, che, disperato dalla inattesa sconfitta, visse giorni cupi e tristi, contraddistinti dalla più alta ondata di suicidi della sua storia. Barbosa cadde in depressione, dichiarando più volte che “la sentenza più pesante per i colpevoli di un reato in Brasile è trent’anni, ma la mia prigionia ne è durata cinquanta”. Giusto dal 1950 al 2000, quando ha ritrovato amici ed avversari nei campi infiniti del cielo.
Tiziano Conti