Ciringo non era solo una radura in mezzo alla foresta: era un vero e proprio santuario segreto, un laboratorio a cielo aperto, intriso di silenzio e mistero, dove la scienza ancestrale di mio padre prendeva forma. Tra gli alberi altissimi, i raggi di sole filtravano come lame d’oro, illuminando in modo intermittente piccole radure tappezzate di muschio, tronchi contorti e radici che sembravano artigli affioranti dal terreno. Ogni angolo di quella foresta aveva un’anima e un potere, e solo mio padre sapeva riconoscerli.
A Ciringo, mio padre era nel suo regno. Lì raccoglieva cortecce, radici, funghi che crescevano in simbiosi con certe piante, foglie dalla forma inconfondibile, bacche e frutti che per altri sarebbero sembrati comuni, ma che per lui erano medicina viva. Ogni elemento era parte del suo arsenale curativo, come le fiale e gli strumenti di un alchimista. Lì preparava con pazienza le sue pozioni, pestando, bollendo, mescolando, sussurrando preghiere o canti antichi, come se parlasse con le piante stesse. L’intero spazio, pur privo di muri, era organizzato con cura: certe pietre usate come supporti, radure trasformate in zone di lavorazione, alberi segnati con incisioni invisibili ai più. Per me, bambino, Ciringo era un luogo sacro, ma anche una prova, un enigma che prima o poi avrei dovuto risolvere da solo. Lo sapevo: un giorno avrei dovuto trovare quella radura da me, senza mio padre.
E per questo, ogni volta che lo accompagnavo, ero vigile come un animale in allerta. Guardavo tutto con occhi che non erano solo curiosi, ma anche pieni di una tensione profonda. Cercavo segni, indizi, punti di riferimento che potessero restare impressi nella mia mente: la forma strana di un albero contorto, il modo in cui una liana pendeva da un ramo come una corda, il suono di un ruscello nascosto, la direzione del vento fra le foglie, perfino il verso di certi uccelli. Ogni elemento poteva essere un messaggero, un richiamo o una guida. Dentro di me si mescolavano due emozioni potenti: l’ammirazione profonda per mio padre, sciamano e guaritore, e la paura sottile ma costante del giorno in cui avrei dovuto andare a Ciringo da solo. Non era una paura che mi paralizzava, ma una tensione che mi rendeva attento, iperconcentrato. Volevo essere all’altezza, volevo trovare anch’io la strada e diventare custode di quei saperi. Ma sapevo che la foresta non perdona chi si distrae. Ciringo era più di un luogo. Era un rito di passaggio in attesa, un’eredità che si trasmetteva attraverso la memoria, l’osservazione, il rispetto e il coraggio. Camminare nella foresta con mio padre mi faceva sentire minuscolo di fronte all’immensità della natura, come se fossi solo un granello in un universo vasto e pulsante di vita. Ogni passo che facevo lungo quel sentiero stretto e fangoso, che conduceva a Ciringo, ogni suono che rompeva il silenzio opprimente mi ricordava quanto fosse immenso e misterioso il mondo che mi circondava. Sentivo di far parte di un equilibrio tanto fragile quanto potente, in cui io, piccolo essere umano, ero solo uno degli innumerevoli abitanti di quella terra selvaggia. I contrasti erano ciò che rendeva tutto così intenso e vivo.
Da una parte c’erano i colori brillanti e vividi della foresta: il verde luminoso delle foglie, il giallo acceso dei fiori, il rosso caldo dei tronchi di mogano. Dall’altra, c’era l’ombra inquietante degli alberi, l’oscurità del sottobosco dove gli occhi brillanti dei predatori apparivano come lampi nell’ombra. Ogni movimento delle foglie poteva essere un presagio di pericolo, eppure tutto sembrava perfettamente bilanciato. La paura era sempre lì, ma così anche la meraviglia. Il contrasto più profondo lo sentivo in me stesso: da un lato, l’ansia di sapere che ogni animale, grande o piccolo, poteva essere una minaccia; dall’altro, la sensazione quasi euforica di far parte di un ecosistema vivo. Nonostante la fatica e la paura, Ciringo era un luogo di apprendimento. Mio padre mi insegnava a costruire trappole per catturare animali selvatici e uccelli, a riconoscere i luoghi dove si annidavano scorpioni e ragni velenosi, e a distinguere le impronte degli animali. Ogni viaggio verso Ciringo era un’avventura che mi rendeva sempre più consapevole della bellezza e della pericolosità della nostra terra. Affrontare quel viaggio da solo fu un’esperienza di stress e paura che non dimenticherò mai. Dopo circa una settimana di allenamenti con mio padre, lui mi disse che era arrivato il momento di dimostrare che ero pronto a fare il viaggio da solo. Dovevo raggiungerlo nella foresta, portandogli acqua e cibo. Le sue parole erano un misto di orgoglio e sfida, ma dentro di me, l’angoscia cresceva come un fuoco che non si spegneva.
Viaggio verso Ciringo in solitudine
Il mio primo viaggio da solo verso Ciringo fu come attraversare un sogno pieno di spine. La notte prima non chiusi occhio. Il respiro corto, il cuore tamburellava nel petto come un animale intrappolato. Immaginavo occhi che mi osservavano tra i cespugli, denti affilati nel buio, figure che si muovevano silenziose dietro gli alberi. Quando mia madre mi svegliò all’alba, il cielo era ancora un velo grigio incerto e l’aria sapeva di terra umida e legna bagnata. «Mi raccomando, non uscire fuori dal sentiero» sussurrò, senza sorridere. Con il sacco sulle spalle e la borraccia legata al fianco, cominciai a camminare. Il sentiero che conoscevo quasi a memoria ora sembrava diverso. Ogni curva era più stretta, ogni ombra più scura. La foresta non era più la stessa: era viva, e mi scrutava. I consigli di mio padre mi ronzavano in testa: «Non avere paura. Osserva. Ascolta. Ma non farti dominare dal panico.» Facile a dirsi. Ogni fruscio faceva sobbalzare i miei nervi. Il canto degli uccelli suonava come un richiamo d’allarme. Mi voltavo continuamente, con la pelle che pizzicava come se mille formiche mi salissero sulla schiena. Poi, accadde. Stavo attraversando un piccolo tratto erboso vicino al torrente secco, quando li vidi. Cinque uomini, seminascosti tra gli alberi, comparvero come apparizioni. Volti dipinti, pelle tesa e lucida per il sudore, occhi immobili. Portavano lance di legno scuro e bastoni scolpiti. Il sangue mi si gelò. Non appartenevano alla nostra tribù. Lo capii subito dai colori sui loro volti: erano Waboni. Una tribù della riva sinistra del Giuba. Una tribù ostile. Cosa ci facevano qui, nel nostro territorio? Mi sentii improvvisamente nudo. Vulnerabile. Solo. Il cuore mi batteva forte, come se volesse uscire dal petto e scappare da solo nella foresta. Il mio istinto mi gridava di fuggire, ma mi costrinsi a rimanere fermo. Ricordai le parole degli anziani: «Se li incontri, non abbassare mai lo sguardo. Guarda il sole. Mostra il tuo volto. Mostra chi sei.» Così alzai lentamente la testa, il mento alto, gli occhi puntati verso l’orizzonte, ma era una postura innaturale, forzata, come se stessi reggendo un peso invisibile. Le mie gambe tremavano leggermente. La schiena era rigida. Dentro, stavo urlando. Sapevo che mi avrebbero rapito.
Le cicatrici del destino
La paura del rapimento aleggiava come una maledizione tramandata di generazione in generazione. Da bambini, ci raccontavano storie di ragazzi scomparsi nella giungla, portati via da tribù nemiche, mai più tornati. Non erano favole. Erano avvertimenti. E io, solo nella foresta, avvertivo addosso quella paura come un mantello ruvido: mi graffiava l’anima.
L’incontro fu brutale. Mi circondarono in silenzio. I Waboni mi toccavano, mi annusavano come si fa con un oggetto sconosciuto, forse per capire se fossi umano o spirito. La pelle d’oca. Il disagio di essere manipolato come un animale. Ma non protestavo. Sapevo che ogni gesto aveva un senso che andava oltre la mia comprensione. Poi, il vecchio. Si avvicinò, mi guardò. Le sue narici si aprirono appena. Il suo sguardo si posò sulla mia fronte, sulle due cicatrici incise con il fuoco durante il rito del Mviko. Le sfiorò con le dita come se leggesse un antico codice. Infine disse, con voce ferma: «Mzigwa». Lo disse come si pronuncia un nome sacro, con la solennità che si riserva a una verità ancestrale. Le lance si abbassarono. Il cerchio si aprì.
Ero libero.
Quelle cicatrici, che avevano bruciato la mia carne da bambino, erano ora il mio passaporto. Un sigillo. Un avvertimento per i nemici. Quelle linee nere non erano più solo la prova del dolore patito, ma la garanzia di una protezione invisibile, un lasciapassare nel mondo degli uomini e degli spiriti.
Durante quel momento, mormoravo la preghiera di invocazione dei nostri antenati, come un mantra, come un incantesimo antico. Le mie labbra si muovevano appena:
Che il sangue versato su questa fronte sia veleno per i nemici
Che il dolore inciso in questa carne sia eterno per chi farà del male
Che il fuoco impresso su questa pelle divampi contro gli ingiusti
Che le cicatrici siano fari nella notte, fendenti di luce contro le tenebre
Che siano benedetti coloro che daranno da bere a questo bambino
Che siano protetti coloro che salveranno la sua vita
Spiriti di Giama, Msami, Mamadu, Citambi, Lugendo, Mberua, Mkomwa, Masasi: vegliate su di noi.
In Italia, anni dopo, quella fronte mi sembrava un peso. Nel 1966, le cicatrici erano motivo di vergogna. Non capivano. I bambini mi guardavano con curiosità, a volte con diffidenza. Io abbassavo il capo, evitavo gli specchi. Quelle che in Africa erano medaglie d’onore, in Europa sembravano ferite da nascondere. Il dolore che avevo sopportato per onorare gli antenati diventava un imbarazzo. Ma certe esperienze non si cancellano. Sono come tatuaggi sull’anima. Fu durante l’università, a Bologna, che qualcosa cambiò. Il professor Sante Tura era un faentino doc, un ematologo raffinato, colto, ma soprattutto umano. Aveva il dono raro di guardare gli studenti negli occhi, come per capire chi erano davvero. Parlava con garbo, e anche nei momenti più duri dell’esame manteneva una gentilezza antica. Aveva un debole per gli studenti-lavoratori, quelli che si facevano il mazzo. Con loro non infieriva mai. Si diceva che solo una volta avesse cacciato uno studente che simulava di essere uno studente lavorare: bastò una domanda diretta, tipo:”come si chiama l’azienda dove lavora” una esitazione fatale, e la verità venne a galla. Era severo, ma giusto. Negli anni 70,quando diedi l’esame io l’istituto di ematologia era una struttura di piccole dimensione dentro il complesso universitario del S. Orsola a Bologna. Il prof. Tura gradiva che studiassimo sul suo libro. Avevo comprato il volume ma avevo studiato poco, ero seriamente impreparato.
Il giorno, dell’esame, forse per mettermi a mio agio – vedendomi di origine Africana – mi chiese qualcosa sull’anemia falciforme. Ero agitato, mal preparato. Balbettai banalità da manuale. Lui non si irrigidì. Mi sorrise appena e, con l’istinto del clinico esperto,per raffreddare la tensione, cambiò discorso, alzò lo sguardo mi scrutò il volto. Poi domandò: «Come mai ha quelle cicatrici sulla fronte?»
Mentii.
«Sono caduto da piccolo… ho battuto la testa.»
Lui mi fissò, con dolce scetticismo.
«Strano. Sono estremamente simmetriche, quelle cicatrici…»
Poi, come se nulla fosse disse.
«Le do 18. Ma deve studiare di più. L’ematologia è il futuro della medicina.»
Quel giorno, uscendo dall’aula, provai una sensazione irrazionale, inspiegabile. Io, che non credo
alla magia, ebbi la certezza che qualcosa – o qualcuno – aveva interferito. Gli spiriti degli antenati?
Un sussurro dal passato?
Forse erano solo suggestioni. O forse… beh, magari gli spiriti dei miei antenati avevano fatto una breve incursione nel reparto di ematologia del Sant’Orsola, convincendo il professore a non bocciarmi Chissà. In ogni caso, da quel giorno, smisi di vergognarmi delle mie cicatrici. Le toccavo con orgoglio. Erano la mia storia. Il mio scudo. Il mio nome. Mazigwa.
Un insolito re della foresta
Il secondo viaggio fu l’incontro con il re delle foresta. Un giorno, durante uno dei miei viaggi verso Ciringo, il sentiero solito era impraticabile per tanti alberi caduti a causa del vento. Presi un altro sentierino, lungo questo sentiero mi trovai di fronte a una scena che mi avrebbe segnato per sempre. A metà percorso, in lontananza, vidi una figura indistinta in mezzo al sentiero. Avvicinandomi, l’aria si riempì di un odore nauseabondo che mi fece girare lo stomaco. Il cuore cominciò a battere più forte quando mi resi conto che quel mucchio informe era un leone, steso immobile. Non ruggiva, non respirava. Era morto.
Il leone, un tempo maestoso re della savana, era ridotto a una carcassa in decomposizione, pieno digrossi vermi il suo pelo dorato sporco e arruffato, le sue zanne ormai prive di minaccia. L’odore era insopportabile. Chiusi gli occhi e il naso, cercando di non vomitare e tentai di passare di fianco all’animale, costeggiando il sentiero stretto e fangoso. Ma il destino volle che il mio piede inciampasse su una delle zampe del leone e caddi, finendo addosso al cadavere.
Il disgusto mi travolse, Mi alzai di scatto, urlando in silenzio per lo shock, e corsi via verso una pozza d’acqua poco distante. Mi gettai nell’acqua, strofinando il corpo e il viso con disperazione per liberarmi di quei parassiti schifosi e le mosche che mi erano attaccati addosso Quando arrivai da mio padre, tremante, mi osservò a lungo, silenzioso, come se già sapesse tutto. Mi guardava con quegli occhi profondi e penetranti che non tradivano mai emozioni facili.
“Cos’hai visto?” mi chiese infine, con la sua solita voce calma. Raccontai tutto: il leone, l’odore, i vermi, e il momento in cui ero caduto sul corpo. Mentre parlavo, mi aspettavo che lui mi fermasse, che dicesse qualcosa per interrompere il flusso di parole cariche di paura e disgusto. Ma rimase in silenzio, ascoltandomi attentamente, senza un sorriso né una smorfia. Poi disse, con voce ferma e senza alcuna enfasi: “Quel leone era potente. Un re della savana. Eppure ora, nella sua morte, tutto si rivolta contro di lui. Mosche, vermi… le stesse creature che non si sarebbero mai avvicinate quando era vivo.”
Quelle parole mi colpirono molto nel corso degli anni. Non erano solo un’osservazione sulla natura: erano una riflessione sulla condizione umana, sul potere, sulla caducità della gloria. Mio padre naturale non conosceva Publio Cornelio Tacito, eppure in quel momento parlava come se lo avesse avuto accanto, come se ne avesse assorbito il pensiero attraverso la polvere, il sangue e i silenzi della sua terra.
E pensai subito a un’altra figura paterna della mia vita: mio padre adottivo, il professor Giuseppe Bertoni. Latinista, grecista, uomo di cultura e di rigore. Nella nostra casa di campagna a Oriolo dei Mille Fichi custodivamo, come fossero presenze vive, i busti dei suoi grandi: Virgilio, Omero, Platone… e Tacito. Tacito, che lui venerava forse più di tutti, per la sua capacità di dire l’essenziale con tagliente precisione, per il suo disincanto, per la sua sobria, amarissima verità.
Ecco, se fosse stato presente a quella scena, il professor Bertoni avrebbe forse citato, a bassa voce, una delle sentenze che amava di più: “Et vulgus eadem pravitate insectabatur interfectum qua foverat viventem.” “E la folla lo oltraggiava da morto con la stessa bassezza con cui lo aveva adulato da vivo.”
Due uomini così diversi — uno nella savana, l’altro tra i libri — dicevano in fondo la stessa cosa. Il primo con la voce della sapienza ancestrale, l’altro con quella della cultura classica. E io lì, figlio dell’uno e dell’altro, ponte inconsapevole tra due mondi che credevo lontani, ma che ho scoperto essere profondamente interconnessi. La vita mi ha posto sul crinale fra l’Africa e l’Europa, fra la parola orale e il testo scolpito, fra l’intuizione e il ragionamento, fra il leone e l’imperatore. E a volte mi sembra che il mio destino sia proprio questo: ascoltare in una lingua ciò che già conosco in un’altra, riconoscere che la verità è una, anche quando cambia forma.
In quella frase sul leone e in quella sentenza latina c’è lo stesso sguardo sul potere e sulla sua fine, sulla fragilità della gloria, sulla miseria della folla. E io, che porto entrambi nel cuore, sento di aver ricevuto un dono raro: la possibilità di abitare due mondi, e di farli parlare l’uno all’altro.
Omar Giama
(3- prosegue…)