Il comandante della Compagnia dei Carabinieri di Faenza, nei giorni scorsi in seminario, ha ricordato la figura di Rocco Chinnici, magistrato ucciso dalla mafia prima che lui nascesse

Con un appuntamento su “Democrazia e libertà” si è conclusa nei giorni scorsi, in seminario a Cesena, l’edizione 2025 della Scuola di dottrina sociale della Chiesa promossa dalla Commissione diocesana Gaudium et spes per i problemi sociali, il lavoro, la giustizia, la pace, la salvaguardia del Creato.
Eredità in divisa
Sul tema è intervenuto Alessandro Averna Chinnici, 33 anni, a Faenza comandante della Compagnia dei Carabinieri, impegnato a tenere viva, pur non avendolo conosciuto, la figura del nonno materno, Rocco Chinnici, magistrato ucciso dalla mafia nel 1983. Presenti alla serata anche il comandante Papale e l’appuntato Bernardini della Compagnia Carabinieri di Cesena.
Idee chiare fin da subito
“Dopo il liceo classico sapevo già cosa fare – ha rivelato Averna Chinnici -. Sono Nato a Roma e cresciuto in Sicilia con la scorta che mi accompagnava a scuola. Mia madre e mio nonno erano magistrati. Una sera, navigando su Internet, ho ripercorso la storia di mio nonno ucciso nell’indifferenza totale. Con lui sono morti due carabinieri che gli facevano la scorta, uno padre di quattro figli, l’altro di cinque. Ho pensato che qualcosa avrei dovuto fare e così sono entrato nell’Arma”. In Romagna, dove opera dopo aver frequentato il 193esimo corso “Valore” dell’Accademia militare di Modena e la Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma, conseguendo la laurea magistrale in Giurisprudenza, il contesto è diverso: “Faccio quello che posso. Volevo combattere la mafia e mi sono trovato a Faenza a tirare fuori la gente dal fango. Qui si sta molto bene. Vivo la vita normale di un ufficiale dei Carabinieri”. Ma dalle sue parole si avverte tutto il desiderio di volere fare di più.
Una vita di “paradossi”
Ripercorrendo la sua storia, Averna Chinnici ha sottolineato che è stata costellata da “paradossi”, a partire dall’anagrafe: “Parlo di mio nonno nelle scuole davanti ai ragazzini, ma non l’ho mai conosciuto. Sono nato nel 1991 e lui è stato ucciso con un’autobomba nel 1983. Al pranzo del mio battesimo c’era Giovanni Falcone. L’ho scoperto da una foto. Rocco Chinnici diede vita al pool antimafia ed entrarono a far parte della sua squadra alcuni giovani magistrati fra i quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, divenuti amici di famiglia. Se non fosse per qualche intervista registrata non saprei neanche che voce avesse mio nonno. Porto l’eredità morale di una persona che non ho conosciuto”.
Clima di omertà
Riguardo all’attentato in via Giuseppe Pipitone, il nipote non si capacita: “Come è stato possibile che una traversa sempre trafficata del viale centrale di Palermo, la mattina di quel 29 luglio fosse deserta? Come è stato possibile che nessuno avesse parcheggiato? Come posso credere che nessuno sapesse nulla? Giustizia è stata fatta, mandanti ed esecutori sono stati trovati, ma questo non è sufficiente. Mi dà fastidio il disinteresse della gente. Uomini come mio nonno sono morti soli. Poche le manifestazioni di sdegno”. Sul clima di omertà, “è conclamato – ha rilevato il giovane comandante dei carabinieri di Faenza – che i boss sono quasi tutti analfabeti. Come possiamo pensare che abbiano preso in mano la Sicilia da soli?”. Una terra da cui Averna Chinnici cerca di allontanarsi, ma nella quale il 29 luglio di ogni anno avverte il dovere di essere presente, per le commemorazioni del nonno. “Anche per l’attentato del generale Dalla Chiesa – prosegue – nessuno ha visto niente. Il suo ultimo pensiero è stato quello di tentare di salvare la vita della moglie coprendola con il suo corpo. Come fa il palermitano medio a non interessarsi e a buttare l’immondizia di fronte alla sua lapide?”.
Urgenza di senso civico
Per tenere viva la memoria del nonno, Averna Chinnici ha scritto il libro di testimonianze “L’Italia di Rocco Chinnici” (Minerva, 2025) e gira la Penisola per presentarlo, tuttavia “nessuno mi ha chiesto di farlo a Palermo – rivela sconsolato -. Me l’hanno chiesto a Luino, a pochi passi dalla Svizzera. In Sicilia manca ancora quel grado di civiltà”. Altre le anomalie citate: “Il voto di scambio non è normale, pagare il pizzo e bloccare l’economia non è normale, vendere souvenir del mafioso con la coppola e il fucile a canne mozze non è normale. Mio nonno lottava per la Sicilia innanzitutto. La mafia c’è anche in Romagna, ma l’urgenza è in Sicilia. Si è perso il limite di ciò che è onesto e ciò che non lo è. Tra i siciliani onesti ci dovrebbe essere una sollevazione di massa forte”.
La speranza nei giovani
Averna Chinnici non rinnega le sue origini: “Non mi vergogno di essere italiano e siciliano. Un esercito di siciliani onesti è morto per la Sicilia. È un posto straordinario, ma c’è una mentalità che va cambiata. “L’acqua mi bagna, il vento mi asciuga” è un tipico detto siciliano. Si potrebbe fare molto di più”. In tutto questo c’è ancora speranza? “Mio nonno credeva nei giovani. È stato il primo magistrato a entrare nelle scuole. Devo crederci anch’io. Sono sicuro che Rocco Chinnici sapeva guardare oltre. Il suo era un messaggio di speranza in cui dobbiamo credere”.