Veneta di nascita, faentina d’adozione, Fiorenza Pancino è venuta ad abitare nella città delle ceramiche per scelta. Un percorso artistico sofferto il suo, ostacolato talvolta, ma denso di significati e coronato con il successo, che l’ha portata un po’ ovunque. L’ultima fatica in ordine di tempo è una residenza a Minneapolis, ma ha realizzato anche le residenze d’artista al Jingdezhen International Studio Artist in Cina e al Ceratekno di Tokio in Giappone. Le sue opere sono state esposte in Danimarca, Giappone, Germania, Parigi, Corea e Spagna. A Faenza suoi sono gli allestimenti alla Bcc in piazza della Libertà e in via Laghi, mentre ad Argillà ha presentato in anteprima due pezzi inediti, tra cui Tutto è perfetto, un mantra di dodici metri.

Intervista a Fiorenza Pancino: “Il nostro mestiere richiede disciplina. La parte folle va messa nel lavoro ovviamente, ma poi ci vogliono ordine, metodo, costanza”

Pancino, partiamo dalla fine, cosa rappresenta questa opera dal grande impatto visivo?

Si arriva ad un punto nella vita in cui si comprende che le esperienze vissute e le persone incontrate erano esattamente quello che era necessario vivere. Tutto va accolto, per questo ho usato smalti belli e brutti, forme piacevoli e sgradevoli. Penso che il senso del vivere sia quello di imparare ad amare gli altri, ma anche noi stessi, e poi a perdonare, ad avere compassione e a superare i nostri limiti. Al centro dell’opera ho inserito una testina d’oro che simboleggia la meditazione. L’artista, quando è connesso con la sua parte profonda, in realtà è già in meditazione. Fare arte è un percorso spirituale.

Quindi la spiritualità è importante nella sua arte?

Molti miei lavori parlano del senso profondo della vita, che non è solo corpo e materia, ma anche spirito. Come tutti mi pongo le grandi domande dell’esistenza: è tutto qui? C’è un dopo?

Cosa vuole raccontare ?

Da un lato la relazione dell’essere umano con la natura (i fiori sono uno dei suoi tratti distintivi n.d.r.), ma anche le dinamiche che avvengono nel profondo, come shock e traumi. La mia arte vuole essere un inno alla vita, ma molte opere affrontano il tema della morte. Ogni lavoro è concettuale, non c’è niente che non venga prima dal pensiero. L’immagine scaturisce dopo.

Quando si è avvicinata per la prima volta alla ceramica?

Mia zia Leda aveva studiato al Ballardini ed era stata un’allieva di Biancini. Quando avevo circa dieci anni mi ha insegnato i rudimenti della ceramica.

Poi cos’è successo?

Ho fatto studi commerciali e mi sono diplomata per volere soprattutto di mio padre. Per quella generazione un’artista in famiglia era inconcepibile. Ma ringrazio anche per questo, perché l’opposizione dei genitori serve. Gli artisti devono misurare la propria convinzione, perché questo è un lavoro molto duro.

Alla fine però l’ha spuntata lei.

Dopo il diploma mi sono messa a lavorare e ho risparmiato per poter frequentare una scuola professionale a Ravenna. Lì ho studiato per tre anni e ho fatto un po’ di pratica negli studi faentini Mazzotti e Morigi. Avevo già comprato il forno e lavoravo la notte e nei weekend su idee mie. Conoscevo Faenza da sempre, mia mamma è di Modigliana e ho scelto di viverci per amore della ceramica. Dopo gli studi e la pratica mi ci sono voluti un paio d’anni di isolamento in un garage per trovare la mia identità artistica. Nel 2000 ho aperto il primo studio in corso Garibaldi dove sono rimasta fino al 2015, poi mi sono trasferita nella sede attuale in via San Filippo Neri.

Una strada tutta in salita.

La vita ce la costruiamo noi. Come dico sempre, sono una professionista del fallimento, perché mi sono messa nella condizione di superarmi. Gli insuccessi sono parte del percorso di chi costruisce il proprio destino. E’ il rapporto con le proprie ingenue aspettative a dover essere rivisto. Poi è stato fondamentale l’apporto di mio marito che mi ha sempre aiutata e sostenuta.

Quali caratteristiche ha l’artista?

Il nostro mestiere richiede disciplina. La parte folle va messa nel lavoro ovviamente, ma poi ci vogliono ordine, metodo, costanza. E poi servono competenze multiple, perché senza strategie di marketing e comunicazione si rischia di non vendere il proprio lavoro, a prescindere dal suo effettivo valore. L’artista deve essere capace di leggere il proprio tempo, altrimenti non sta dicendo nulla.

Come sta evolvendo il mondo della ceramica?

La visione sulla ceramica sta cambiando, è tornata di moda. Ci sono stati anni di crisi, ora c’è un ritorno, soprattutto grazie ai giovani.

Quindi c’è spazio per loro?

Sì assolutamente, ma il sistema in Italia va riformato. In America si può aprire un’attività in mezz’ora, c’è tutto un sistema che stimola l’impresa. L’Italia è il paese più bello del mondo, dove tutto è storia, cultura e cibo, ma qui è complicato lavorare. Serve un investimento serio sulla formazione e corsi universitari per la ceramica, che all’estero sono una cosa normale. L’arte può creare occupazione.

Quindi un aiuto anche per la comunità?

È importante costruire non solo qualcosa per sé, ma anche per gli altri. Il nostro lavoro deve ricadere sulla comunità, e accogliere i giovani è uno dei modi.

Barbara Fichera