Sentirsi parte di una grande famiglia che abbraccia tutto il mondo. La Promessa e la Legge come legame d’unione con tutti gli scout, al di là delle differenze. È questo il messaggio che riportano gli esploratori e le guide della Diocesi al rientro dal Jamboree, il grande raduno mondiale degli scout che si è svolto quest’anno in Corea del Sud. Il 5 ottobre scorso, alla sala San Carlo di Faenza sono stati cinque i testimoni faentini che hanno riportato questa esperienza: Asia Babini, Viola Suaci, Michele Gamberini, Edoardo dall’Agata e Riccardo Dotti; ai quali si sono aggiunti rappresentanti di Modigliana (Jessica Valli), Bagnacavallo (Maria Giulia Vignoli e la capo scout Chiara Babini) e Alfonsine (Rebecca Minguzzi). Ad accompagnarli c’era don Stefano Vecchi, parroco di Cotignola, già partecipante ai Jamboree in Svezia (2011) e Giappone (2015).

Don Stefano Vecchi è stato l’assistente ecclesiastico del contingente italiano in Corea del Sud

Questa volta don Stefano ha avuto un ruolo ancor più significativo: era infatti l’assistente ecclesiastico del contingente italiano che ha visto partire da tutta la Penisola oltre 1.200 scout di cui 930 giovani, che hanno composto 22 reparti Agesci e 4 Cngei (gli scout a-confessionali, ndr). Un servizio quest’anno vissuto da un punto di vista diverso: se gli altri anni era a fianco diretto dei ragazzi, quest’anno ha avuto un ruolo di coordinamento di tutto il contingente, curando gli aspetti logistici e di contenuto. E nonostante la macchina organizzativa coreana non sia stata sempre efficiente, il Jamboree, come sempre, ha regalato tante emozioni. «Nonostante i vari problemi logistici e organizzativi, i nostri scout sono tornati tutti a casa arricchiti e contenti da questa esperienza – racconta -. Il vivere attività con altri scout da tutto il mondo è sempre qualcosa di unico e speciale».

“Fare attività con scout di tutto il mondo è sempre un’esperienza unica e speciale”

Alcuni contingenti, come quelli americani e britannici, hanno deciso di disdire la partecipazione dopo alcuni giorni vista l’emergenza caldo e la disorganizzazione. «Personalmente ridimensionerei un po’ quanto si è sentito dire in Italia. Dei problemi ci sono stati, ma dopo un confronto con l’autorità coreana si sono in gran parte risolti. Americani e inglesi avrebbero secondo me dovuto avere più pazienza». A mettere in ulteriore crisi il Jamboree è stato poi un tifone che ha costretto anche il contingente italiano a sfollare dal luogo adibito a ospitare il campo. «Anche queste difficoltà sono state l’occasione per fare squadra e superarle secondo lo stile scout» commenta.

Jamboree

La specificità dell’Agesci? Il valore pedagogico

Alcune immagini restano impresse negli occhi, specie pensando all’attualità. Come vedere in quel campo le tende di scout arabi ed ebrei una a fianco all’altra, con gli esploratori pronti a fare a attività insieme: è questa l’immagine potente che arriva da eventi internazionali di questo tipo e che vale più di tante parole. “Passa un messaggio chiaro: sono più le cose che uniscono rispetto a quelle che dividono” commenta don Stefano. In tutto 155 i Paesi rappresentanti, anche se ha colpito l’assenza della Russia. «Il Jamboree non è un evento cattolico – specifica don Stefano – ma internazionale e interreligioso, ogni gruppo è libero di vivere la propria religiosità ed essere arricchito dall’incontro con l’altro». L’esperienza del Jamboree è anche un modo per toccare con mano come il metodo scout viene declinato in tutto il mondo. “Sicuramente quello che colpisce – dice don Stefano – è la grande importanza che in Italia viene data agli aspetti pedagogici, e non è un caso che il metodo scout venga studiato anche in ambito universitario. In questo senso il rapporto educativo capo-ragazzo è fondamentale. In altri Paesi non sempre è così, si privilegiano gli aspetti tecnici del mondo scout e l’acquisizione di competenze. Il capo scout diventa anzitutto un maestro di specialità”.

Il racconto degli scout di Bagnacavallo

Samuele Marchi