Cosa c’è di meglio di un buon libro? Probabilmente solo un buon libro che sa emozionare, ed è proprio questo il caso dell’opera Un baobab toccò il cielo dell’Africa (edito da Tempo al libro) dell’autore emergente Giacomo Pozzi. Quest’anno, il giovane scrittore lughese, classe 1998, si è messo in gioco, trasformando la sua creatività in un romanzo di formazione. La trama narra di viaggi di ragazzi affamati di esperienze, ma al contempo alla ricerca di se stessi. Giovani che imparano a a trovare il coraggio per affrontare le amarezze della vita. Giovani che crescono. Il tutto dipinto su uno sfondo caratterizzato da paesaggi africani.
Intervista a Giacomo Pozzi
Giacomo, parlaci un po’ di te.
Sono sempre stato un bambino molto sensibile, vivace e libero di esprimersi. Crescendo, nell’ultimo periodo mi sono avvicinato alla permacultura, universo ampissimo che ha cambiato radicalmente il mio modo di percepire e vivere la vita. Sono appassionato di musica, di tè e sono uno skater da molti anni. Ho intrapreso viaggi che mi hanno messo alla prova sotto tanti punti di vista, emotivi e fisici, per diversi mesi, spesso in progetti di permacultura. Arriverò a prendermi cura di un pezzo di terra, e manterrò la mia purezza: vivrò come ho sempre fatto, da uomo libero quale sono nato.
Cosa ti ha spinto a scrivere?
Ogni volta che scrivo, sento pervadermi una sensazione di bellezza. Mi sento parte del percorso che compio, dentro e attorno a me. Osservo, indago, costruisco e metabolizzo. È un ottimo spunto per fare ricerca e, al contempo, continuare a creare. Ogni libro è un’idea che prende forma e si fa materia. In questo, bisogna fidarsi delle sensazioni istintive che sorgono attraverso di essa. Ho sempre scritto per me, nell’ultimo periodo, e l’idea di scrivere e pubblicare un libro era rimasta ad aleggiare nell’aria alla pari di un sogno che prima o poi avrei concretizzato. Successivamente, quel giorno si è palesato con un’immagine: un foglio bianco con al centro un punto nero, punto dal quale tutto è partito, fino ad arrivare al libro che oggi tengo stretto tra le mani.
Che cosa ti ha portato maggiormente a scegliere come tema di fondo quello del viaggio come strumento di conoscenza di sé?
Il viaggio – e lo dico per esperienza personale – è la base di tutto… Non inteso solo come viaggio esterno, ma un movimento interno molto ricco e variegato; questo è il vero viaggio: quello che ognuno compie dentro di sé, attraverso le prove e le sfide che la vita ci pone di fronte per aiutarci a crescere, a conoscerci, a realizzarci. Il punto nero, di cui parlavo all’inizio, mi ha fatto pensare a un seme, e al fatto che un seme dentro se stesso racchiude tutta la potenzialità inespressa della vita. Servono le condizioni perfette perché possa germogliare, e noi esseri umani in questo siamo molto simili. Perciò il collegamento e l’associazione sono stati rapidi strumenti di creazione per iniziare a scrivere pagina dopo pagina un racconto che avesse come tematica la scoperta di sé, attraverso la danza che si può decidere di compiere assieme alla vita stessa, e come fosse quindi un vero e proprio viaggio, al di là dell’esplorazione fisica del continente africano.
Il romanzo racchiude qualche elemento autobiografico?
Mi viene da sorridere: inevitabile! Quando si scrive, si scrive sempre – consciamente o inconsciamente – di come si percepisce il mondo che ci circonda, di pensieri e sensazioni che ci appartengono intimamente. È un continuo parlare di sé, anche attraverso una storia inventata o le parole a cui diamo voce tramite le labbra di altri.
Come è nata l’idea della trama?
Da quel punto nero, al centro di un foglio bianco. Tutto ha preso a evolversi velocemente, quasi esistesse già. Ero lo spettatore di fronte al film, puro strumento di canalizzazione nel raccontare gli accaduti. Sono stati mesi molto particolari… La mente in continuo movimento, guazzabuglio disordinato di concetti, parole e immagini. Eppure ogni singolo aspetto era in linea, nella complessità e nel complesso dell’opera. Sono processi incredibili, e farne parte a volte sembra quasi pericoloso: bisogna imparare a darsi una disciplina, trovare e mantenere un proprio equilibrio per non inciampare e farsi travolgere da tutta quell’energia.
Quali pensi siano le tue più grandi influenze dal punto di vista letterario?
Leggevo molto da piccolo. Ultimamente ho ripreso, seppur in maniera molto blanda e pigra. Ho autori a cui mi sento molto vicino, nonostante abbia letto un’opera soltanto o abbia pile di loro libri ancora da spulciare: Tiziano Terzani, Paulo Coelho, Daniel Pennac, Sri Aurobindo, Ray Bradbury e George Orwell sono alcuni di loro.
Le ambientazioni che hai usato come sfondo per i tuoi personaggi hanno per te un valore affettivo particolare?
Non sono mai stato in Africa. È un continente che mi affascina molto, sotto tanti punti di vista. C’è qualcosa che mi chiama e che proviene dal deserto, da quegli entroterra selvaggi: andrò, sono sicuro che andrò. Mi piaceva molto il contrasto tra il nostro modo di vivere, così troppo pieno e distraente, e quel senso di calma, sospensione e vuoto che si può percepire in luoghi del genere, ambienti che ci obbligano a entrare in contatto con noi stessi, esaminarci e sottoporci a un’auto-conoscenza a volte dolorosa.
In quale personaggio ti rispecchi di più?
Nella storia in sé per sé: un’unione tra gli aspetti maschili e femminili del genere umano. Quindi nel concetto di completezza, di unicità, di percorso alle volte aspro, alle volte magico e inaspettato; nell’essere il protagonista diretto della propria vita, e non lo spettatore; in ogni sfida, ogni particolare e sfumatura di semplicità, desiderio o fragile sofferenza.
In futuro, realizzerai altri progetti letterari?
Ho già un paio di lavoretti alla mano, che tra non molto recupererò per ultimare e cercare di fare pubblicare.
Annalisa Strada