Un paio di mesi fa, tutte le famiglie francescane faentine hanno organizzato insieme una serie di conferenze dal titolo La Profezia della povera Pace per ricordare due anniversari: gli 800 anni della Regola Antica del Terz’Ordine francescano, oggi Ordine francescano secolare e i 700 anni dalla morte di Dante la cui storia è legata a filo doppio a quella del Poverello di Assisi e a quella dei suoi seguaci. Come risulta dalle ricerche di monsignor Francesco Lanzoni, confermate anche dallo storico Franco Cardini, la presenza francescana a Faenza è antichissima: in questi giorni ha compiuto sicuramente otto secoli. Lo testimonia il documento ufficiale pontificio in assoluto più antico a occuparsi dei Francescani secolari, allora chiamati “Fratelli della penitenza”.

Si tratta della bolla Significatum est di papa Onorio III, datata 16 dicembre 1221. Con essa il Papa, tramite il vescovo di Rimini, vivente ancora san Francesco, prese sotto la propria protezione i Fratelli della penitenza del Terz’Ordine francescano, che a Faenza e dintorni, rifiutavano di giurare di seguire in armi i Podestà. Lo facevano in obbedienza alla loro Regola, il Memoriale Propositi, redatta pochi mesi prima, la quale imponeva loro di non giurare e di non portare, né usare armi. A seguito di questa esenzione dal servizio militare, tra le poche concesse a dei laici, a questi Penitenti fu affidata l’assistenza e la manutenzione pubblica: una specie di servizio civile. Il beato Nevolone, morto ottantenne nel 1280 e venerato in Duomo, probabilmente era uno di loro.

Beato Nevolone

Poi, nel 1289, morto da tempo san Francesco, quella Regola fu modificata e proprio quei divieti molto alleggeriti. Diversi secoli dopo, l’11 settembre 1949, al termine del processo a Pietro Pinna, primo obiettore di coscienza del dopoguerra, l’Osservatore Romano, in prima pagina, ricordò quegli avvenimenti e li definì come “la più famosa obiezione di coscienza che la storia registri”. Quell’articolo colpì Aldo Capitini, l’ideatore della Perugia-Assisi, che la riportò nei suoi libri.

I documenti che attestano la presenza degli altri due ordini sono più recenti, ma anch’essi molto antichi. Il 4 giugno 1223, vivente ancora santa Chiara, le suore Clarisse erano già presenti con un loro convento a Faenza, nella cosiddetta “isola di San Martino”, nei pressi della confluenza del Marzeno nel Lamone. Si tratta del più antico nell’Emilia-Romagna, il 13esimo in Italia. I Frati minori di Porta Ravegnana, la quale allora si trovava nell’attuale via Naviglio nei pressi di palazzo Ferniani, avevano un convento a Faenza sicuramente fin dal 5 settembre 1231. Probabilmente, erano in città da prima, ma non è certo che fra Viviano, fra Guglielmo e fra Bartolo, citati nei documenti delle clarisse, fossero minori.

La terra di Romagna, in quegli anni, era fertile per i francescani. Il ministro provinciale fra Graziano (forse di Bagnacavallo) di ritorno dal capitolo minoritico di Assisi del 30 maggio 1221 portò con sé in Romagna, a Montepaolo ai confini della nostra Diocesi, dove ora si sono trasferite le nostre suore clarisse, un giovane portoghese di nome Antonio, collocandolo in eremitaggio. Quel giovane, l’anno seguente, tenne una strabiliante predica a Forlì e in seguito diventò il santo di Padova. Lo stesso san Francesco il 15 agosto 1222 predicò in piazza Maggiore a Bologna, ma per entrambi non è documentata la presenza nella nostra città.

La bolla papale Significatum est

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Il testo, del 16 dicembre 1221, è stato redatto dal papa Onorio III per difendere i fratelli della Penitenza in merito al giuramento, da esibire ai capi dei luoghi, di prendere le armi e seguirli: «Siccome essi sono importunati perché prestino il giuramento di portare le armi e seguire i podestà dei rispettivi luoghi, poiché mai mancò chi nutrisse invidia per le buone azioni, con questa lettera apostolica ordiniamo a te, o fratello, che, qualora fossi da essi richiesto, in forza della nostra autorità, costringa i loro molestatori a desistere dal pretendere il giuramento, dopo che li avrai ammoniti e tolta ad essi ogni possibilità di appello».
(Traduzione Mariano D’Alatri).

Davide Patuelli