Era l’alba del 4 luglio 1966 a Bulo Yak, e l’aria era carica di un silenzio che, precedeva il caldo afoso del giorno. Attorno a me, il paesaggio si presentava arido e selvaggio: foglie e arbusti secchi punteggiavano la terra rossa, mentre un leggero vento sollevava piccole nuvolette di terra che si perdevano all’orizzonte. All’ombra di un baobab secolare, mi trovavo insieme ai miei parenti, mia madre, mio padre, mio fratello Mussa, mia sorella Isha, mio fratello Lugendo e altri, i volti seri, concentrati sul ciglio di una strada di terra battuta che conduceva a Mogadiscio, lontana e quasi irraggiungibile. Mi sentivo minuscolo, spaesato, non c’erano certezze, non c’erano telefoni a cui affidarsi, nessun cellulare con cui comunicare. Tutto era legato al destino e dalla buona volontà degli sconosciuti.

Ogni mezzo che compariva all’orizzonte, sollevando una nuvola di polvere, mi faceva trattenere il respiro, i parenti agitavano la mano perché si fermasse, e poi tutto dipendeva da una rapida negoziazione. Mi pareva un rituale antico: il camionista ascoltava, si discuteva la tariffa del trasporto e, se Dio voleva, si giungeva a un accordo. Ma non sempre. A volte il camion passava senza fermarsi, altre volte il prezzo era troppo alto. E così si restava ad aspettare. Ore, giorni. Ogni minuto di attesa si allungava come un’eternità. Guardavo il viso dei miei parenti cercando segni di speranza, ma c’era solo la pazienza silenziosa di chi è abituato a una vita di incertezze. L’ombra del baobab si accorciava con l’avanzare del sole, e il calore iniziava a farsi opprimente. Nella mia testa risuonava una domanda senza risposta: “E se non arrivassi mai a Mogadiscio?

Il paesaggio attorno era immobile, eppure la mia mente era in tumulto. Ogni sguardo verso la strada era carico di ansia, ogni rumore lontano mi faceva sobbalzare. La mia giovane immaginazione correva verso scenari terribili: e se l’autista si fosse rivelato una cattiva persona? E se mi avesse portato in un luogo sconosciuto, lontano da tutto ciò che conoscevo? Ma, alla fine, non avevo scelta. Ero affidato al destino, ai gesti gentili di un uomo sconosciuto, al volere di Dio. Ogni tanto mi stringevo al fianco di mia madre, che mi guardava con occhi che cercavano di trasmettermi forza e serenità, ma che tradivano la preoccupazione. Lei, come me, sapeva che tutto poteva accadere, ma che non avevamo altro che dare la fiducia a quel camionista, in quel viaggio incerto. Infine, un camion si fermò, mio babbo e i miei parenti discussero con l’autista, e dopo un lungo scambio, mi trovai caricato tra sacchi di granoturco e banane. Il mio cuore continuava a battere forte mentre il paesaggio familiare di Bulo Yak si allontanava, e io,  partivo verso l’ignoto con solo la speranza che tutto sarebbe andato per il meglio. L’idea di lasciare il villaggio, la mia famiglia, tutto ciò che mi era familiare, mi riempiva di ansia. Non riuscivo a trovare alcun motivo di conforto nell’intraprendere questo viaggio verso un incerto luogo sconosciuto.

Mentre il camion iniziava il suo percorso, guardavo fuori, assorto nei miei pensieri. Le emozioni contrastanti che mi assalivano non lasciavano spazio alla felicità, solo a una sensazione di perdita e inquietudine per ciò che mi attendeva. Dentro di me cominciò a farsi strada un pensiero terribile. All’inizio era solo un’ombra, qualcosa di vago, che non osavo nemmeno pensare con chiarezza. Ma poi prese forma, come una voce cattiva che mi sussurrava dentro: e se mi avessero venduto? Era una cosa che avevo già sentito dire nel villaggio, tra le capanne, quando le donne parlavano a mezza voce, guardandosi intorno con sospetto, quasi avessero paura che anche i muri di fango potessero ascoltare. “Hai visto che quel bambino non si vede più? Pare lo abbiano dato a un mercante arabo…per pochi soldi”. Allora non capivo bene cosa volesse dire “dato via”, ma adesso, mentre guardavo quell’uomo sconosciuto che mi avrebbe portato via per un viaggio lunghissimo — quattrocento chilometri! — senza che nessuno dei miei genitori mi accompagnasse, tutto diventava più chiaro. O meglio, diventava spaventoso.

Perché avevo una prova, una prova che mi sembrava inoppugnabile: nessuno della mia famiglia veniva con me. Nessuno di loro veniva a controllare dove andavo, con chi, per quanto tempo. Nessuno piangeva, nessuno si disperava. Mi dicevo: se davvero mi volessero bene, come possono lasciarmi andare così? Solo, con uno sconosciuto? E allora quel sospetto diventava come una lama gelida che mi tagliava dentro, silenziosa. Forse mi avevano venduto davvero. Forse, per loro, io non ero più un figlio, ma solo una bocca in meno da sfamare, un peso tolto dalle spalle. Cercavo di scacciarlo, quel pensiero, ma continuava a tornare. Lo sentivo annidato dietro ogni parola non detta, ogni saluto frettoloso, ogni silenzio. Mi aggrappavo alla speranza che non fosse vero, che tutto questo avesse un altro significato, ma non ci riuscivo del tutto. Perché un bambino capisce. Anche se nessuno glielo dice, capisce. E io avevo capito. O almeno…così credevo.

Il viaggio durò dodici ore. Dodici ore interminabili, scosse da sobbalzi, pioggia, silenzi rotti dal rombo del motore e dalla fatica del respiro. Ero sul cassone aperto di un camion, con altre dieci, forse undici persone, tutte adulte, sconosciuti con cui dividevo quello spazio angusto come si divide una barca alla deriva. Io, il più piccolo, il più solo. Ero stato affidato all’autista, ma nessuno me lo aveva detto. Sentivo solo la responsabilità addosso, come una coperta ruvida sotto il sole. Il cassone puzzava di legno vecchio, olio, fango, sudore. Ogni vibrazione della strada ci attraversava le ossa. Il metallo del fondo era duro, sconnesso, scivoloso sotto i piedi nudi. Le mani aggrappate alle sponde di ferro bollente per non cadere a ogni curva, a ogni freno, a ogni saltello. Non parlavo. Osservavo. Guardavo ogni curva, ogni albero maestoso che sfilava oltre il bordo del camion, ogni capanna di fango e paglia nei villaggi che attraversavamo. Cercavo nel paesaggio una memoria, una traccia, un appiglio. Era come il viaggio verso Ciringo, quando andai da solo, ma stavolta era tutto più pesante. Il cielo sembrava trattenere il fiato sopra di noi. Le nubi, dapprima lontane, si facevano ogni ora più basse, più cariche, più minacciose.

Fu nei pressi di Gelib che il cielo esplose. Una pioggia tropicale. Vera. Violenta. Totale. All’inizio fu solo un tamburellare sulle lamiere del camion, poi una furia d’acqua che ci travolse senza lasciare scampo. In pochi minuti eravamo fradici. Ogni uomo, ogni angolo del cassone, ogni sacco o valigia era zuppo. Non c’era riparo, non c’era scampo. L’acqua ci colava lungo la schiena, si infilava nei vestiti, scivolava tra le dita, dentro le scarpe, se le avevi. Aveva l’odore del fango caldo, dell’umido, della vegetazione bagnata. Era calda, eppure ti faceva tremare. Fummo costretti a fermarci. Due ore. Due ore fermi in mezzo alla savana, con l’acqua che batteva come tamburi di guerra. Nessuno parlava. Qualcuno pregava. Io, zitto, cercavo di sentire la voce di mio padre, che in quel viaggio non c’era. Lo cercavo nelle cose, nella forza degli alberi, nella terra che reggeva il camion, nei ricordi. Il cassone era diventato una pozzanghera. Puzzava di muffa, di uomini umidi, di malinconia. Le schiene curve, gli occhi che evitavano di incrociarsi. Ogni secondo era un’eternità. Poi arrivò il sole. Spuntò improvviso, come un miracolo. Ma la terra non accolse il suo calore. Era diventata un lago. Le ruote del camion affondavano nel fango come zoccoli in una palude. L’aria era densa, appiccicosa, satura del profumo della pioggia evaporata. Riprendemmo il cammino, lentamente.

Dopo un’ora ci trovammo davanti un vero e proprio fiume. L’acqua attraversava la strada, profonda, opaca, torbida. Il camion si fermò. Silenzio. L’autista scese, prese un grosso bastone. Era un uomo magro, con una camicia che pareva incollata al corpo, i pantaloni arrotolati, il volto duro ma calmo. Aveva mani da contadino, piedi larghi, occhi che scrutavano l’orizzonte come quelli di un falco. Tastò il terreno. Entrò nell’acqua fino al ginocchio, calcolò. Poi tornò indietro, salì, girò la chiave. Il camion tremò. Poi si mosse. Tensione. Nessuno parlava. Il motore ringhiava. L’autista sterzava a destra, poi bruscamente a sinistra. L’acqua saliva, le ruote sembravano affondare. Il camion ondeggiava. Si piegava. A volte sembrava che stesse per rovesciarsi. Le donne trattenevano il fiato. Io pregavo in silenzio, le mani sudate, lo stomaco chiuso. Poi un’ultima sterzata, secca, precisa. Un guizzo. E fummo fuori. Sull’asciutto. Il motore si calmò. L’autista non disse nulla. Ma nei suoi occhi brillava una sicurezza che sembrava antica, quella di chi ha guidato nel deserto, nella giungla, nella vita. Io, dietro, seduto su una tavola umida, col cuore che batteva ancora nel petto, non dimenticai quel momento. La fatica. Il peso del viaggio. L’abbandono. Ma anche la bellezza della sopravvivenza. E la mano invisibile di mio padre, che in fondo, mi aveva accompagnato lo stesso.

Quando arrivammo a Mogadiscio, il sole era una sfera rosso fuoco che si abbassava lenta verso l’oceano, tingendo la città di un colore caldo e irreale. La luce scivolava sulle facciate scrostate dei palazzi coloniali, sui minareti affilati che bucavano il cielo, sui venditori ambulanti che smontavano i loro banchetti mentre le ombre si allungavano come dita silenziose lungo i vicoli polverosi. Il camion si fermò in una piazzetta polverosa, affacciata su una delle arterie principali della città. Intorno, un caos ordinato di clacson, risate, richiami in somalo, canti dal muezzin, rumori metallici di pentole e martelli. Gli altri passeggeri scesero con un’aria quasi festosa, stiracchiandosi le membra stanche e guardandosi attorno come se, nonostante la fatica, il solo fatto di essere giunti a destinazione avesse sciolto le loro paure. Io no. Rimasi immobile, come sospeso nel tempo. “Scendo o non scendo?”, mi domandai.

Il camion era quasi vuota ormai. Mi guardai attorno smarrito, ma nessuno mi rivolse uno sguardo. Non sapevo cosa si fossero detti mio padre, i miei parenti e l’autista. Nessuno mi aveva spiegato nulla. Nessuno sembrava preoccuparsi di me. Alla fine, quasi meccanicamente, scesi anch’io. Mi mossi verso il posto di guida, nella speranza di vedere l’autista, di ricevere un cenno, un’indicazione, qualsiasi cosa. Ma il sedile era vuoto. Il motore taceva. Lui non c’era. E fu come se una voragine si aprisse sotto i miei piedi. Il panico mi investì tutto in un colpo, come un’onda improvvisa e fredda: “E ora? Dove vado? Cosa faccio?“. La mente cominciò a elucubrare ipotesi spaventose. Forse l’autista aveva semplicemente completato il suo compito: portarmi da Bulo Yak a Mogadiscio. Ora, me la dovevo cavare da solo. Forse mio padre aveva sottovalutato tutto, o aveva dato per scontato che qualcuno mi avrebbe atteso. Ma io non sapevo nemmeno dove fosse la casa di mio zio. Ero stato a Mogadiscio una sola volta, e avevo nove anni. Il cuore mi batteva come un tamburo tribale, mentre il mondo intorno a me diventava improvvisamente ostile.

Mi misi a camminare, imitando i miei compagni di viaggio, ma senza meta. I miei passi erano incerti, le gambe molli, come se la terra sotto di me fosse fatta di sabbia mobile. Dopo un centinaio di metri, forse duecento, mi fermai vicino a un basso muretto. Avevo con me solo una piccola valigia, leggera ma per me pesantissima, perché conteneva tutte le mie speranze, il mio passato e il mio futuro.  La città non si curava di me. Le persone mi passavano accanto indifferenti, o forse troppo curiose. Alcuni mi guardavano con occhi spenti, altri con sguardi bassi e rapidi. Ogni volto sembrava portare con sé un’intenzione minacciosa. Vedevo in loro dei fantasmi, degli zombi affamati che scrutavano la mia valigetta come se valesse una fortuna. Ogni passante mi sembrava un ladro in attesa del momento giusto, pronto a strapparmi via anche quel poco che avevo. Il crepuscolo avanzava. Il cielo si faceva sempre più viola, poi blu profondo. Le prime luci elettriche tremolavano tra le palme come lucciole stanche. Mogadiscio si trasformava in un labirinto senza uscite, in un sogno sbagliato.

E io, bambino sperduto, ero un punto dimenticato nella mappa infinita della città. Nessuno mi conosceva. Nessuno mi cercava. Nessuno mi aspettava. E il panico, quel panico cieco e animalesco, diventava ogni secondo più reale. Mi accasciai e cominciai a piangere. Non un pianto liberatorio, ma un tremolio disperato, di chi si sente abbandonato e inutile. Il sole cadeva a picco sui tetti rossi di Mogadiscio. Piangevo senza far rumore. I miei singhiozzi si confondevano col chiasso del mercato lontano, e con le voci di bambini che giocavano in una via polverosa. Avevo smarrito la strada verso la casa di mio zio Aweso, e con lei ogni senso di direzione, ogni certezza. Ma in quel momento di disorientamento e paura, affiorò nella mia mente un ricordo antico, nitido come se fosse inciso nella pietra: il giorno in cui io e mio padre assistemmo a una scena che avrebbe cambiato per sempre il mio modo di guardare la vita.

La pozza, il baobab, il risveglio della savana

A Ciringo, il mattino si svegliava lentamente con un respiro caldo. Dalla nostra hala la capanna di legno sospesa tra i rami nodosi di un gigantesco baobab — dominavamo la savana come guardiani silenziosi. Lì il mondo era colore e suono, e ogni mattina era un concerto di vita. L’aria odorava di terra umida, di sterco secco, di corteccia viva. I raggi dell’alba filtravano tra le fronde con una luce tenue e calda, e accarezzavano la superficie di una grande pozza d’acqua ai piedi del nostro rifugio, trasformandola in uno specchio d’acqua della savana. L’acqua rifletteva i colori del cielo e il verde scuro dell’erba alta. Intorno alla pozza, gli animali si muovevano con lentezza rituale, come seguendo un’antica coreografia. Un gruppo di bufali comparve da una radura, massicci, cupi, con i musi bassi e gli zoccoli che sollevavano piccoli sbuffi di polvere. Tra loro c’era un cucciolo, appena nato, ancora incerto nei movimenti. Ma saltellava, con un’allegria tutta sua, come se il mondo fosse una scoperta da danzare. Il suo corpo tremolava a ogni passo, e il suo musetto sembrava sorridere. Nella mia tribù, quel movimento è celebrato da una danza antica. Si canta: “Mwana mboga a ke fegna, na mie ne fegna…” “Se il piccolo di un bufalo è felice di essere venuto al mondo, figuriamoci un umano…

La furia nella savana

Ma la vita, nella savana, si regge su un equilibrio crudele. E improvvisamente, dalla sinistra, come un fulmine uscito da una nuvola di cespugli secchi, spuntò un leone. Lanciato con una violenza cieca, affondò i denti nel collo del piccolo bufalo, che crollò a terra emettendo un rantolo, le zampette che si agitavano in modo scoordinato, quasi come se cercasse ancora di ballare. Sentii la mano calda e forte di mio padre stringere la mia. Guardai in silenzio, come paralizzato. La madre del piccolo si arrestò di colpo. Vibrava di tensione. Avanzava, poi si fermava, poi indietreggiava. Il cucciolo emetteva suoni spezzati, impastati di agonia e sorpresa. Poi accadde l’impensabile.

La carica della madre

La madre del bufalo, in un gesto che sembrava più umano che animale, abbassò il capo e con un urlo gutturale prese la rincorsa. Una massa di carne e coraggio lanciata contro la morte. Colpì il leone al ventre con una violenza disperata. Lo fece rotolare, ma il leone non lasciò la presa. I suoi denti rimasero saldati al collo del cucciolo. Il leone sanguinava copiosamente, ma non mollava. La madre indietreggiò, esitante, poi ruggì ancora, più forte, e ripartì. Un secondo impatto. Questa volta il leone fu scagliato in aria. Il suo corpo si accartocciò come un sacco bagnato. Eppure, ancora una volta, lo vidi: la mascella serrata, i denti affondati nella carne viva del piccolo. Anche a terra, anche ormai morente, il re della foresta non si era arreso.

La resa che non è sconfitta

Poi lentamente, il leone — già una fontana di sangue — chiuse gli occhi. Respirò affannosamente. Con un ultimo spasmo, esalò il suo spirito e allentò la morsa. E il piccolo bufalo, come spinto da una forza invisibile, si alzò. Camminò barcollando, i suoi passi sembravano ancora danza. Si avvicinò alla madre, che lo leccò con dolcezza. Entrambi si voltarono un’ultima volta verso il leone esanime. Sembravano ringraziarlo. Poi si allontanarono lentamente, sparendo tra le erbe alte. Io restavo a fissare la scena, stretto a mio padre, incapace di parlare. Fu allora che lui mi guardò dritto negli occhi. Mi disse: “Sei fortunato, figliolo. Questo è uno dei rarissimi casi in cui un bufalo ha ucciso un leone, è uno spettacolo raro. Ma ricorda: il leone è morto, ma non si è arreso. È morto con i denti ancora nel collo del cucciolo. Solo chi si arrende perde. Ricordatelo sempre: è morto, ma non si è arreso .” “Ma che dire di mamma bufala, anche lei non si è arresa, ma lei ha fatto qualcosa in più. Ha sovvertito le leggi della natura. Ha cambiato ciò che il destino aveva riservato al suo cucciolo ,cioè la morte“.

Il ritorno al presente

E così, seduto su quel muretto bianco di Mogadiscio, gli occhi gonfi e la gola chiusa, ricordai quelle parole. Il mio cuore rallentò. Inspirai a fondo, sentii la sabbia sotto i miei piedi, il ronzio lontano di un taxi, e le voci della gente come echi della savana. No, non dovevo arrendermi. Dovevo trovare la casa di zio Aweso. Anche se la città era grande, anche se la paura mi stringeva la gola, non ero sconfitto. Non ancora.

Omar Giama

(14- prosegue…)