Una sera, lo zio Salim convocò una riunione nella sua casa. Non una semplice cena, ma qualcosa di più: si percepiva nell’aria, nel modo in cui le mogli si muovevano senza parlare, nei toni controllati, negli sguardi che non si incrociavano mai davvero. Erano presenti mio babbo, gli zii Salim e Aweso, e le rispettive mogli, tra cui quella zia che da sempre mi stringeva come un figlio, l’unica che riuscisse a calmarmi quando il mondo si faceva troppo minaccioso. Quella sera, vidi finalmente mio fratello Nur e mio cugino Ramazani. Stavano in collegio a Mogadiscio e non li vedevo da anni. Erano partiti che io ero piccolissimo: li ricordavo bambini, li ritrovavo ragazzi. Si alzarono insieme, vennero verso di me e mi abbracciarono con un calore che aveva qualcosa di antico e di misterioso. Mi aggrappai a quel gesto come a una zattera.
Dopo la cena, mentre il caffè bolliva nella stanza accanto e un silenzio lento scendeva sui tappeti, lo zio Salim si alzò. Si passò le mani sulle ginocchia come se stesse togliendo la polvere del dubbio, e disse con voce ferma: “Vi devo comunicare una cosa importante. Omarino andrà in Italia a studiare”. Un tonfo sordo. Così suonò dentro di me. Le parole rimbalzarono sui muri, poi crollarono nel silenzio. Nessuno parlava. Solo mia zia mi strinse forte, più forte del solito, come se con la sola forza delle sue braccia potesse trattenermi lì, impedire al mondo di strapparmi via. “Questa decisione,” aggiunse lo zio, “l’abbiamo presa noi tre, i più anziani della famiglia”. Parlava di sé, di mio padre e dello zio Aweso. Io ero lì, vivo, presente, ma era come se fossi invisibile. Sentivo il cuore battermi nel petto, ma intorno a me si parlava come se fossi un oggetto da spostare, una valigia da preparare, un pezzo del futuro da incastrare nei loro progetti.
Allora mi alzai. Le ginocchia tremavano, ma la voce – non so come – riuscì a uscire. “Ma io…io non vorrei andare in Italia” Un nuovo silenzio. Più profondo, più denso. Uno di quei silenzi che pesano come pietre. Fu lo zio Aweso a rompere l’incantesimo. Non con dolcezza. Non con parole da adulto a bambino. Ma con la voce severa di un destino che non si discute: “Come non hai deciso di nascere, non puoi decidere nulla finché noi siamo in vita”. Quelle parole mi si piantarono dentro come spine. Sentii il viso bagnarsi. Lacrime calde e silenziose. Il mondo mi crollava addosso, e nessuno sembrava vederlo. Solo mia zia si alzò, mi prese per mano e mi condusse fuori da quella stanza che non dimenticherò mai: una stanza in cui, senza gridare, mi stavano togliendo il diritto di esistere a modo mio.
Ricordo ancora vividamente quella sera a Mogadiscio. L’aria era densa, quasi immobile, come se tutto il quartiere trattenesse il respiro. Nella stanza, le voci si erano affievolite d’improvviso, come se un presagio invisibile avesse attraversato le pareti. Ed è in quel momento preciso che la porta si aprì con un cigolio lento e misurato. Entrò un uomo alto, dalla postura composta e dallo sguardo profondo, vestito con una sobria eleganza che non lasciava spazio al superfluo. Era il signor Osman Kamula. Il suo solo ingresso cambiò la temperatura della stanza. Le persone si alzarono in piedi. Kamula non era un uomo qualunque. Aveva studiato legge all’estero grazie a una borsa di studio assegnata con fatica e merito, e nel corso della sua vita era diventato un attivista instancabile per i diritti delle minoranze in Somalia, tra cui il nostro popolo, i Wazigua. Nato a Mofi, un villaggio che portava il nome del suo nonno, un ex schiavo bantu, Kamula incarnava tutto ciò che la parola “resilienza” potesse significare. Le sue battaglie contro le ingiustizie del regime di Siad Barre, la sua difesa delle lingue minoritarie, il suo impegno per l’inclusione economica e sociale dei gruppi marginalizzati — tutto questo lo aveva reso una figura di riferimento, soprattutto nella nostra tribù, dove il suo nome veniva pronunciato quasi con timore reverenziale.
Quando vidi mio zio alzarsi in piedi per accoglierlo, sentii il cuore accelerare nel petto. Se un uomo come Kamula si era preso la briga di essere presente a quella riunione, significava che ciò di cui si stava discutendo non era una semplice ipotesi o un capriccio familiare. Era una questione seria. E riguardava me. In quel momento, la mia ansia aumentò in modo incontrollabile. Le mani mi sudavano, il respiro diventava corto, e il rumore del mio stesso battito mi riempiva le orecchie. Cosa avrebbe detto? Avrebbe approvato? Avrebbe dato il suo consenso o espresso dubbi?
Kamula parlò con voce calma, ferma, quasi paterna. Raccontò con parole misurate la propria esperienza, ricordando le difficoltà dell’integrazione, l’importanza dell’educazione come strumento di emancipazione. Raccontò anche del suo amore per la moglie, Aloisia Mayerhofer, una donna austriaca che aveva lasciato tutto per vivere tra i Wazigua, e che si era fatta accogliere con umiltà e rispetto. “Nessun bambino,” disse a un certo punto, fissando mio padre negli occhi, “deve essere trattenuto nella propria terra, se altrove può diventare luce per sé e per il suo popolo“. Quelle parole scesero nella stanza come una benedizione. Ma dentro di me, lasciarono un senso misto di meraviglia e vertigine. Avrei davvero lasciato tutto? La mia terra, la mia lingua, mia madre? Eppure, in quel momento capii che quella decisione non era più solo una questione familiare. Era diventata un fatto collettivo. Una scelta che riguardava l’intero villaggio, forse
persino il nostro popolo. Kamula non si limitò a dare il suo assenso. Offrì una visione. E io, un bambino con gli occhi spalancati dal timore e dall’attesa, sentii che la mia vita stava cambiando proprio lì, davanti a lui, sotto lo sguardo severo ma pieno di speranza del più rispettato tra i nostri uomini.
Li fissavo, incapace di capire. Come se con quel gesto avessero rinnegato qualcosa di profondo, di familiare. Come se si fossero allontanati da me, non in chilometri ma in spirito. Sentivo il terreno franarmi sotto i piedi. E in mezzo a tutte quelle trasformazioni, tutti quegli strappi, quel nome emergeva come una cicatrice: Pina Ziani. Era lei. Sempre lei. La straniera, la bianca, la cristiana. Non sapevo chi fosse veramente, ma il suo nome era già una sentenza. Non ci fu spazio per il respiro. Lo zio Aweso concluse la riunione con un tono asciutto, come se stesse parlando della costruzione di una capanna: “Domani iniziamo a procurare i documenti per il viaggio”. Nessuna discussione. Nessun appello. Il verdetto era stato emesso. Io, Omarino, sarei andato via. Strappato dal mio mondo, dai miei amici, dalla mia lingua, e da tutto ciò che conoscevo. Quella notte non dormii. Avevo paura. Una paura che non era solo del viaggio, ma del cambiamento. Della perdita. Di me stesso.

Le vaccinazioni
Una mattina a Mogadiscio, l’aria sembrava diversa, quasi carica di presagi. Il cielo aveva lo stesso azzurro terso dei giorni precedenti, eppure qualcosa era cambiato. L’euforia iniziale che mi aveva accompagnato nei primi giorni in città — la meraviglia per le strade piene di automobili, per gli edifici alti, per il vociare incessante della folla — si era dissolta, lasciando il posto a una strana inquietudine. Era un’ansia sottile, sorda, simile al silenzio che precede un temporale. Quando una donna, dall’aspetto gentile ma sconosciuto, si presentò alla casa di mio zio Aweso, un brivido mi attraversò la schiena. Lo zio la salutò con calore, scambiò con lei poche parole in somalo — lingua che non capivo — poi si voltò verso di me con un tono che non ammetteva replica: «Seguila». Null’altro. Nessuna spiegazione. Solo quel comando secco e irrevocabile. La donna mi fece cenno di seguirla e mi prese per mano. Non disse una parola nella mia lingua, ma il suo volto era sereno. Avrei dovuto fidarmi. Eppure, qualcosa dentro di me resisteva. Il mio cuore accelerò, e un senso di pericolo invisibile si insinuò nella mia mente: qualcosa di inevitabile stava per accadere.
Camminammo per quasi quaranta minuti sotto un sole spietato, in mezzo a strade polverose e affollate. Intorno a me Mogadiscio brulicava di voci, clacson, venditori ambulanti, motorini che sfrecciavano. Ma era come se tutto accadesse dietro un vetro opaco. Il rumore della città mi giungeva attutito, distante. Mi sentivo staccato dal mondo reale, come in un sogno febbrile. Ogni passo accanto a quella donna muta aumentava il mio smarrimento. Non sapevo dove stessimo andando, né perché. Ogni tanto lei parlava, ma le sue parole erano suoni vuoti per me. Non avevo strumenti per decifrarli.
Io, che ero sempre vissuto a Bulo Yak, dove la vita scorreva secondo ritmi antichi e familiari — tra la capanna di mio padre, i canti serali attorno al fuoco, il bestiame da condurre e i racconti degli anziani — mi ritrovavo ora trascinato in un mondo dove non capivo nulla. A Bulo Yak, nessuno mi aveva mai prelevato del sangue. Non avevo mai visto un ago. La sola idea che qualcuno potesse infilare un oggetto appuntito che succhiasse, il mio sangue mi era estranea. Avevo visto il sangue uscire da una ferita, ma non incanalato in un tubo. Eppure ora, in questa città che non parlava la mia lingua, qualcosa stava per accadere al mio corpo, senza che nessuno mi spiegasse nulla.
Arrivammo infine davanti a un edificio sconosciuto, grande e silenzioso. Un ospedale. Il primo che avessi mai visto. Appena varcammo la soglia, fui investito da un odore pungente e acre — disinfettante, lo avrei imparato dopo — che mi fece venire la nausea. Tutto era bianco: i muri, le divise dei medici, i letti. Bianco accecante, freddo, innaturale. Le superfici brillavano di una pulizia minacciosa. Le persone si muovevano come automi, senza guardarmi, senza salutarmi. Mi fecero sedere su una sedia di metallo, fredda come la lama di un coltello. Poi, senza dire nulla, presero il mio braccio e iniziarono a prelevarmi il sangue. Ricordo ancora la luce del neon riflettersi sull’ago, sottile e brillante come una zanna. Quando lo vidi penetrare la mia pelle, un grido muto mi salì in gola. Era la prima volta in vita mia che vedevo il mio sangue uscire dal corpo da un tubo. Mi sembrò che stessi morendo. Non avevo mai sperimentato nulla di simile. Nessuno mi aveva preparato a quell’atto così violento.
Mi sentii, impaurito, vulnerabile. La mia mente era un turbine di pensieri caotici. Nessuno mi parlava. Nessuno mi guardava negli occhi. Poi arrivarono le vaccinazioni. Uno, due, tre aghi. Bruciore. Dolore. Lacrime. Mi sentivo solo. Disperatamente solo. Solo come il giorno in cui, bambino, fui portato al rituale del mviko. Ma almeno allora mi avevano detto perché. Sapevo che faceva parte di qualcosa che mi avrebbe aiutato a essere forte, che c’era un senso, un destino. Qui, invece, il silenzio era più spietato delle punizioni del maestro coranico. Nessuna voce amica, nessuna mano che mi accarezzasse la testa, nessuno sguardo che mi rassicurasse. Mi chiesi, per la prima volta: Sto entrando in un altro mondo? Un mondo dove il corpo si cura con aghi e provette, dove non si spiegano le cose, dove si eseguono ordini senza comprendere. Un mondo che parla una lingua che non è la mia. Un mondo che non conosce Bulo Yak, né il mio passato, né la mia paura.
Quella mattina a Mogadiscio capii, nel silenzio più duro, che qualcosa era cambiato per sempre. Non ero più solo un bambino del villaggio. Stavo diventando altro. E non sapevo ancora se sarebbe stato un bene o un male. Dopo circa un’ora, un uomo arrivò e parlò in Kisigua, la mia lingua. Si chiamava Juma e mi disse che lo aveva mandato mio zio. Aggiunse che aveva avuto un imprevisto e non riusciva a raggiungerci poi aggiunse “Corre voce che presto ti trasferirai in un paese molto lontano“. Quelle parole mi colpirono come un fulmine. Mi tornarono alla mente le parole di Mama Mchiwa, la veggente del mio villaggio: “Lo spirito di questo bambino non appartiene ai monti sacri della nostra terra“. Fino a quel momento, avevo sempre pensato che fosse un semplice enigma. Ora, però, quelle parole sembravano profetiche, una condanna ineluttabile. Sentii crescere dentro di me una paura profonda, la paura di essere sradicato, di essere portato via dalle mie radici. Quando finalmente rividi mio zio, cercò di tranquillizzarmi, dicendo che sarei presto tornato al villaggio con mio babbo a salutare tutti. Quelle parole mi offrirono un sollievo temporaneo, ma non riuscivo a scrollarmi di dosso l’ombra delle parole di Juma e la profezia di Mama Mchiwa. Anche se cercavo di concentrarmi sul pensiero confortante del ritorno al mio villaggio, la sensazione di essere in balia di un destino sconosciuto e incontrollabile continuava a tormentarmi.
Guerrieri contro guaritori
Pochi giorni dopo gli esami in ospedale, mio zio portò me e mio padre in una piazza affollata di Mogadiscio. Era l’alba, e i camionisti si preparavano per i loro lunghi viaggi verso Chisimaio, nel Basso Giuba. Mio zio, si avvicinò a un camionista che sembrava conoscesse. Dopo una breve conversazione, ci disse di salire sul camion di quell’uomo. Il viaggio verso Bulo Yak durò dodici ore, e la strada sembrava infinita. Ci fermammo solo una volta, in un villaggio misero, per mangiare. Ricordo che mentre stavo mangiando un panino, un bambino si avvicinò tendendo la mano. Inizialmente esitai, preoccupato di restare senza cibo, ma le parole di mia nonna risuonarono nella mia mente: “Se un bambino ha fame e tu non condividi, quel cibo ti rimarrà di traverso“. Con riluttanza, divisi il mio panino con lui. La sua gratitudine illuminò il suo viso, e anche se a malincuore, provai una sensazione di soddisfazione profonda.
Arrivammo a Bulo Yak quando il sole stava calando. Il villaggio era tranquillo, lontano dal caos di Mogadiscio. Quella notte, il cielo africano si aprì sopra di me in tutto il suo splendore. Le stelle brillavano come diamanti, e la luce della luna argentea illuminava il paesaggio. Mi sentii in pace, immerso nella bellezza della natura. Quella notte, mentre cercavo di dormire, l’ansia non mi abbandonava. Ogni suono del villaggio sembrava amplificato, e la mia mente correva a quella conversazione misteriosa. Mi sentivo estraneo nel mio stesso villaggio, e un senso di incertezza prevaleva su ogni altra emozione. L’indomani, il villaggio non sembrava più lo stesso. Gli sguardi furtivi degli abitanti e i sussurri tra loro mi facevano sentire ancora più estraneo. Anche i miei coetanei mi guardavano con curiosità e distacco. Mi sentivo come un intruso, un estraneo tra la mia stessa gente.

I parenti di mia madre
Due giorni dopo il mio arrivo al villaggio, si tenne un’altra riunione di famiglia nella nostra capanna. Era una di quelle occasioni solenni e rare, il cui peso si percepiva già nell’aria immobile del mattino. Nessuno diceva nulla, ma si avvertiva un’attesa tesa, un fremito nell’aria, come se tutto il villaggio trattenesse il respiro. Gli zii, gli anziani e altri membri della famiglia arrivavano uno alla volta, con lentezza cerimoniosa, come dettata da un copione antico e intoccabile. La maggioranza questa volta erano i parenti di mia madre Ogni ingresso era segnato da un rituale codificato di saluti, inchini e gesti che conoscevo fin da bambino. Le strette di mano variavano a seconda della vicinanza e del tempo trascorso dall’ultimo incontro: un palmo sulla mano, un tocco sul dorso, la stretta del polso…era come una lingua segreta, scolpita nei gesti. Gli anziani si scambiavano lunghi convenevoli: “Come sta la nonna? E i bambini? Hai sentito del raccolto di Mberwa?” Nessuno sembrava avere fretta. Ma io, seduto in un angolo, percepivo un’inquietudine montare in me, una tensione nascosta sotto i sorrisi e le cortesie. Sentivo che qualcosa stava per accadere. Che io ero al centro di quella convocazione. Noi bambini, io compreso, passavamo davanti agli anziani con il capo chino, pronunciando con rispetto la parola “shikamo”. In risposta ricevevamo il familiare “marahaba” e una carezza affettuosa sulla testa. Erano gesti semplici, ma avevano la forza di leggi non scritte: parlavano di rispetto, di ordine, di memoria.
Poi si formò il cerchio. Il più piccolo dei cugini passò con il bricco per farci lavare le mani: l’acqua fresca scorreva sulle dita, come a purificarci prima dell’evento. Seguivano le banane dolci, e il tè speziato, il cui profumo denso di zenzero e cannella sembrava voler nascondere l’inquietudine che si respirava. Ma io non riuscivo più a fingere serenità. Sapevo che l’argomento ero io. Che qualcosa non andava. Quando finalmente la capanna si richiuse e la riunione cominciò, mi avvicinai silenzioso a mia madre. Restai lì, con le orecchie e gli occhi tesi e il cuore che batteva forte. La voce di Mussa, mio zio paterno, si levò profonda e cadenzata, come una sentenza. Accanto a lui c’era Abdalla, mio zio materno, che parlava poco, ma con tono tagliente. La mamma, seduta al margine, non parlava: osservava. Ma il suo sguardo era teso, diffidente. Si capiva che covava qualcosa. L’atmosfera era carica. Le parole uscivano lente, pesanti, come macigni.
«Non si decide da soli sul destino di un figlio!» scandiva Abdalla, contenendo la collera. «Non siamo wazungu…Non siamo bianchi che prendono decisioni nelle loro case senza parlare con i loro vecchi.» Fu allora che capii: si stava criticando aspramente mio zio Salim e Aweso, e perfino mio padre. Avevano deciso tutto sul mio futuro – la scuola, il mio ritorno, forse anche il mio ruolo nella comunità – senza consultare gli anziani. Peggio ancora, senza coinvolgere la famiglia materna. Un affronto grave, un atto che spezzava l’equilibrio sacro tra i due rami del sangue. «Noi non siamo ospiti in questa famiglia!» disse un altro zio, «Abbiamo diritto di parola! Le decisioni importanti si prendono insieme!» Il tono si alzava. Alcuni parlavano, altri scuotevano la testa in silenzio, ma il fuoco era acceso. Lo zio Ramazani fratello di mia madre evocò persino il rischio che io stavo crescendo nel modo sbagliato, E più volte, tornava l’accusa: «Vi comportate come i bianchi e poi troppo bianchi attorno a questo bimbo».
Quelle parole mi fecero sprofondare in un’angoscia viscerale. Mi sentii colpevole, anche se non avevo voce in capitolo. Ascoltavo con la schiena appoggiata al muro di fango, le mani che tremavano. Sentivo le voci diventare più dure, l’aria nella capanna farsi pesante come piombo. Ebbi paura. Una paura irrazionale, bambina, ma potente. Il mondo che avevo sognato di ritrovare sembrava sul punto di implodere per colpa mia. Un conflitto che opponeva fratelli, che metteva in discussione l’autorità paterna, la voce degli anziani, l’equilibrio stesso della famiglia. Vidi mia madre alzare la voce – Non l’avevo mai sentita alzare la voce in pubblico. Mia madre, sempre silenziosa, composta, fedele alla discrezione imposta alle donne della sua stirpe, quella volta si alzò in piedi, nel mezzo dell’assemblea, e parlò. Lo fece con una voce che non le conoscevo. Ferma. Alta. Vibrante come una corda tesa. Lo fece per me. E in quel momento, da bambino che ero, qualcosa in me si rimescolò. Una strana miscela di vergogna, orgoglio, timore. E stupore: stupore nel vedere mia madre, sempre silenziosa nell’ombra di mio padre, emergere con quella forza, quella determinazione che sembrava scaturire da lontano, da generazioni di antenati guerrieri che all’improvviso prendevano parola attraverso di lei.
Si discuteva del mio futuro. Di quella decisione che sembrava solo una “proposta”, ma che aveva risvegliato tensioni profonde: mandarmi in Italia, lontano dal villaggio, dalla nostra lingua, dalle nostre abitudini. Ma anche lontano dai destini segnati. La rivalità tra la famiglia di mia madre e quella di mio padre era antica. Non si gridava, non si esplicitava mai davvero. Ma era lì, come la polvere rossa che si posa ovunque: impossibile ignorarla. La sua famiglia era una stirpe di guerrieri. Mio nonno materno aveva combattuto contro le tribù più sanguinose della Somalia, ed era un nome che ancora si pronunciava con rispetto nei racconti del fuoco e anche molti antenati di mia madre sono stati guerrieri eroici. Quella di mio padre, invece, era la famiglia dei guaritori. Uomini di conoscenza, certo. Ma con le mani sempre dentro le piaghe, chini sui dolori. Onorevoli, ma non potenti. Non comandavano: servivano. Mia madre, spalleggiata dai suoi fratelli, fece un passo avanti. Disse che quella non era solo una decisione logistica o educativa: era una scelta sul mio destino, sulla mia appartenenza. E nessuno poteva prenderla ignorando la sua voce. «Io sono figlia di uomini che hanno portato la lancia, non l’infuso di radici,» disse. E io la guardai, trattenendo il respiro. Quel giorno, la vidi davvero. Vidi chi era. E capii che, in quel momento, stava combattendo per me come una guerriera.
I fratelli di mio padre si irrigidirono. Uno serrò la mascella, un altro tamburellava nervosamente le dita sul ginocchio. Sentii le ostilità trattenute, gli sguardi che si evitavano, la tensione che aleggiava come un temporale che non esplode ma pesa. Eppure lei non si sedette subito. Restò in piedi, fiera. Aveva il mento alto e la schiena dritta. Io osservavo anche mio padre, sentivo il suo imbarazzo crescere, la sua frustrazione, ma anche – forse – un’ombra di rispetto per quella donna che aveva sempre tenuto al suo posto e che ora parlava con la voce di chi non accetta più il silenzio. Mi sembrava che nessuno sapesse dove guardare. Io guardavo lei. E nel mio cuore, confuso e piccolo, qualcosa si apriva. Non sapevo se andarmene o correre ad abbracciarla. Ma sentivo che da quel giorno, in me, non ci sarebbero stati solo i guaritori. C’era anche una guerriera. Ero figlio di entrambi. Dopo quell’intervento di mia madre, qualcosa in me si ruppe. Corsi fuori dalla capanna, e poi scappai tra i polli spaventati, oltre il recinto, lungo il sentiero rosso che portava al fiume. Corsi finché le gambe me lo permisero. Corsi per fuggire dalle voci, dagli sguardi, da quel dolore antico che non sapevo nemmeno nominare. Non sapevo dove stavo andando. Ma sapevo che non potevo restare.
Nella densa oscurità della notte africana, mentre il villaggio di Bulo Yak dormiva profondamente, il mio cuore batteva come una furia. Sapevo che la mia sorte era segnata: ero destinato a partire per l’Italia, una terra sconosciuta e lontana. In preda all’angoscia. Attraversai il villaggio correndo, ignorando ogni pericolo. Non sapevo dove sarei andato, ma ad un certo punto decisi di cercare rifugio dai miei nonni materni nel villaggio di Ng’Ambo sperando di sfuggire al destino che altri stavano decidendo per me.
Percorrere la riva del fiume Giuba era come sfidare la natura stessa. Sapevo bene del rischio di imbattermi in coccodrilli e ippopotami, ma la paura non mi fermava. Il fruscio delle foglie, il sibilo del vento e il battito frenetico del mio cuore si fondevano con l’eco della mia ansia. La notte, con il cielo stellato e la luna alta sopra di me, sembrava alleata della mia fuga disperata. Non c’era tempo per riflettere sulle conseguenze. La mia unica guida era il desiderio di trovare un luogo sicuro, un rifugio lontano dalle decisioni imposte dagli adulti. Quando arrivai a Ng’Ambo, sfinito ma ancora determinato, attraversai le strade silenziose fino a raggiungere il grande baobab, il simbolo familiare che mi indicava la vicinanza alla casa dei miei nonni materni. Il baobab sembrava quasi accogliermi, offrendomi protezione come se comprendesse il mio bisogno di riparo. I miei nonni, sorpresi dal mio arrivo notturno, mi osservarono con preoccupazione. Ma quando spiegai loro la situazione, capirono subito. Con la saggezza degli anziani, mi rassicurarono con una semplice frase in swahili: “Hakunamatata“, che significa “non c’è problema“. Le loro parole gentili e il loro abbraccio mi diedero un sollievo momentaneo, facendomi sentire protetto. Mi invitarono a riposare, promettendomi che avremmo affrontato la questione il giorno seguente. Così, sotto il tetto sicuro della loro capanna, mi addormentai, cullato dalla tranquillità delle loro parole.
La mattina successiva, il sole non si era ancora levato quando sentii la voce di mio padre. Lui e mio zio Mussa erano già arrivati, disturbando la quiete della mattina. Non ci furono lunghe discussioni: mi presero e mi riportarono a Bulo Yak, al villaggio da cui ero fuggito. Mio nonno cercò di rassicurarmi ancora una volta, ma nel profondo del cuore sapevo che il mio destino era già stato deciso. Durante il viaggio di ritorno, sentii una profonda rassegnazione. Nonostante il mio tentativo di fuga, sapevo che non potevo sfuggire al volere degli adulti. Mi sentivo una pedina in un gioco troppo grande per me, e cercavo la forza di accettare ciò che mi aspettava.
Nel caldo opprimente del pomeriggio, ci fu una nuova riunione a casa nostra, alla presenza dei parenti stretti. L’atmosfera era tesa, carica di aspettative. Mio padre parlò, ristabilendo la sua autorità, annunciando che il mio destino sarebbe stato simile a quello dei miei zii, Salim e Aweso. Contro il volere di tutti, mio nonno paterno li aveva affidati a un missionario, mandandoli lontano per studiare e costruirsi un futuro. Nonostante le difficoltà, i miei zii erano riusciti a emergere come impiegati rispettati del Ministero della Pubblica Istruzione. La loro storia dimostrava che il cambiamento, seppur doloroso, poteva portare a un miglioramento. Se i miei zii avevano trovato successo lontano, forse c’era speranza anche per me. Poi rivolgendosi a mia madre disse ”abbiamo tanti nemici nel villaggio che non approvano che i nostri figli frequentino le scuole dei bianchi, cerchiamo di essere uniti e di dimostrare che prima o poi i nostri figli faranno più successo di tutti”. Alla fine mia madre si convinse anche se soffriva al pensiero che molti maliziosamente dicevano che i Giama avevano venduto i figli ai bianchi.
Omar Giama
(13- prosegue…)














