Tutte le volte che andavamo in quel collegio seduta su una panchina di legno c’era una giovane donna di circa 20 anni, appena vedeva i miei zii di scatto si alzava in piedi, gli zii la salutavano ed entravano nel collegio lei timidamente si avvicinava al cancello e da una fessura della grande porta di ferro del collegio i suoi occhi scrutavano l’interno come se cercassero qualcosa, o qualcuno, di prezioso che le era li dentro. Curioso, chiesi a mio Aweso: “Cosa fa quella ragazza, zio?” La risposta di mio zio fu semplice ma carica di tristezza: “Sta cercando di vedere sua figlia. Gliel’hanno strappata via perché il padre era italiano.” Non capii del tutto allora, ma vidi chiaramente il dolore sul viso della donna.

Zio Aweso era un uomo distinto, con lo sguardo serio e profondo di chi aveva visto e sopportato troppo. La sua figura, alta e magra, si muoveva con un’aria di dignità, ma c’era sempre una tristezza nascosta nei suoi occhi. Aveva fatto una promessa a Fatuma, la ragazza che guardava attraverso una fessura della grande porta di ferro del collegio, una promessa che lo legava a una bambina di nome Sara. Mio zio mi racconta che Sara era una bambina di 6 anni, sua madre era Fatuma. Suo padre, un funzionario italiano, l’aveva abbandonata non appena era nata. Fatuma era stata una bella ragazza somala, con una risata contagiosa e occhi che brillavano come stelle nella notte. Lavorava come cameriera nella casa di questo funzionario dello stato italiano. La sua vita cambiò per sempre quando, giovane e ingenua, si innamorò del suo padrone. Quell’amore proibito la rese madre di una bambina meticcia, una figlia che portava il marchio del disonore nella società somala. Quando il funzionario venne a sapere della gravidanza, la sua reazione fu brutale. Fatuma fu licenziata immediatamente e cacciata dalla casa con poche monete in mano. La sua tribù, venuta a sapere della situazione, la rinnegò, lasciandola sola e senza supporto. Con Sara tra le braccia, cercò disperatamente un modo per sopravvivere, ma ogni porta si chiudeva davanti a lei. La sua ultima speranza era Zio Aweso, l’unico che non l’aveva mai giudicata.

Zio Aweso l’aveva conosciuto al ministero dove saltuariamente faceva le pulizie. Lui, pur non potendo fare molto per cambiare la situazione, aveva promesso di prendersi cura di Sara, almeno per quanto gli era possibile. Trovò un modo per metterla nel collegio Regina Elena. Ogni settimana, Zio Aweso si recava al Collegio Regina Elena, portando con sé una piccola speranza nel cuore e un sacchetto di frutta fresca per Sara. Io lo accompagnavo, osservando in silenzio quel rituale doloroso. Arrivati al cancello del collegio, lui chiedeva alle guardie il permesso di vedere la bambina. Conoscevano bene mio zio era il più famoso archivista del ministero della pubblica istruzione era noto perché ricordava a memoria dove erano allocati tutti i fascicoli più importanti – con un cenno solenne, lo lasciavano passare. Fatuma, invece, rimaneva fuori, nascosta dietro le inferiate del cancello. La sua figura, esile e consumata dalla sofferenza, osservava da lontano. Non poteva avvicinarsi troppo, il regolamento del collegio era chiaro se si fosse trovato il babbo o la madre la bambina non poteva stare nel collegio.

Sara, con i suoi grandi occhi scuri, correva verso il cancello, e Zio Aweso la sollevava, facendola vedere alla madre. Ogni volta, il cuore di Fatuma si spezzava un po’ di più. Le lacrime le scendevano lungo il viso mentre cercava di nascondere il dolore dietro un sorriso per la sua bambina di appena 6 anni. Sara la guardava con innocenza, troppo giovane per comprendere il peso della sua esistenza in una società che la respingeva. Il padre di Sara era un uomo di potere, freddo e calcolatore, più interessato alla propria carriera che al benessere degli altri. Per lui, Sara era solo una macchia nel suo impeccabile curriculum, un errore da cancellare. Non si curava del dolore che aveva inflitto a Fatuma, né del futuro della bambina. La sua arroganza e mancanza di scrupoli erano evidenti a tutti coloro che lavoravano con lui, ma nessuno osava sfidarlo. In quella società ancora coloniale, il potere degli italiani era incontrastato, e chiunque provasse a opporsi veniva rapidamente ridotto al silenzio. Zio Aweso, però, non poteva accettare questa ingiustizia. Anche se non aveva il potere di cambiare la legge o di opporsi apertamente al sistema, faceva tutto ciò che era in suo potere per aiutare Fatuma e Sara.

Settimana dopo settimana, portava il conforto di una visita e qualche parola di incoraggiamento. Non poteva promettere molto, ma era determinato a mantenere la sua promessa. In quei momenti, mi parlava della vita a Mogadiscio, della tensione crescente tra i somali e i colonizzatori italiani, del malcontento che si diffondeva nelle strade. Mi spiegava come, nonostante tutto, ci fosse ancora chi, come lui, cercava di fare la cosa giusta, anche a costo di sacrifici personali. Col passare del tempo, la situazione di Fatuma peggiorava. Viveva di stenti, accampata in una misera capanna ai margini della città, sopravvivendo grazie alla carità di pochi. Il suo corpo era segnato dalla fame e dalla fatica, ma la sua volontà di vedere crescere Sara non veniva meno.

Una mattina Fatuma non si presentò al solito appuntamento e neanche il giorno successivo, mio zio preoccupato decise di andare a chiedere informazioni nella periferia dove viveva la ragazza..Il quartiere che attraversammo quel giorno era come uno spettro vivente, una distesa di case logore e mezze crollate che si affacciavano su strade polverose. Gli edifici, grigi e ammaccati, si accalcavano uno sull’altro in un mosaico di sofferenza e povertà. Qui l’odore di umidità stantia e rifiuti si mescolava all’acre del sudore umano, al fumo delle cucine improvvisate lungo i vicoli, creando un’aria pesante e densa. Qualche finestra aveva brandelli di tende scolorite, svolazzanti come fantasmi sfilacciati, mentre i bambini scalzi giocavano con poco altro che sassi e rami secchi. Le persone evitavano i nostri sguardi, quasi fuggivano dai nostri passi, mormorando a bassa voce tra loro, come se parlare di Sara Abdulrahman  fosse un peccato di cui scontare il prezzo.

La famiglia di Fatuma portava il peso di una condanna non scritta: quella gravidanza, così scandalosa, aveva marchiato per sempre anche loro. La nascita di quella bambina mulatta, il risultato di un atto di prepotenza, non era considerata altro che un’onta, una punizione per la giovane madre e per chiunque avesse osato starle accanto. Un silenzio che pesava più della morte, come se tutti nel quartiere sapessero ma evitassero di ammettere il male che l’aveva strappata alla vita. Ma fu un ragazzino di tredici anni a scalfire quella coltre di indifferenza. Si avvicinò a noi con passo leggero, come un angelo triste che si faceva strada nel grigiore di quel luogo. I suoi occhi, grandi e pieni di pietà, sembravano portare con sé una saggezza che andava ben oltre i suoi anni. La pelle scura risaltava sotto il sole feroce, e aveva un viso dolce ma segnato da una conoscenza precoce del dolore.

Senza paura, disse che Fatuma era sua zia e che era morta, ci indicò il cammino verso la fossa anonima dove giaceva la zia, mostrando più compassione di tutti quelli che abitavano lì e rivelando un amore silenzioso e costante che nessuno aveva saputo dare a Fatuma. Fuori dal quartiere, in un campetto coperto di arbusti e sterpaglie, ci fermammo. La terra era smossa di recente, segno di una sepoltura affrettata e senza cerimonia, quasi a voler nascondere, ancora una volta, ciò che era considerato un abominio. Il ragazzino abbassò lo sguardo e indicò con la mano la fossa, incapace di pronunciare altre parole. Era lì che giaceva Fatuma, abbandonata nella polvere, sepolta senza dignità e senza pace. E dietro tutto questo vi era un uomo che incarnava la crudeltà del potere. Il notabile italiano, un uomo di prestigio e influenza, aveva approfittato di una giovane ragazza vulnerabile, usandola per il proprio piacere e poi scacciandola come fosse un’ombra indegna. Le aveva negato ogni sostegno, ignorando le sofferenze di Fatuma e il disprezzo a cui sarebbe andata incontro. Ma non si era fermato lì: quel figlio, sangue del suo sangue, era stato per lui solo un altro problema da rimuovere.  In quel campo desolato, alla vista della misera sepoltura, avvertivamo il peso di un’ingiustizia che sembrava non avere rimedio. Il ragazzino ci guardava, quasi implorando una risposta, una giustizia che lui sapeva già non sarebbe mai arrivata. Ma in quel gesto di pietà, in quel viso che ancora rifletteva amore, c’era la prova di un’umanità che andava oltre la sofferenza e il disprezzo, una resistenza sottile e pura contro l’oppressione.

La storia di Fatuma e Sara era solo una delle tante che si consumavano nell’ombra della dominazione coloniale. Mogadiscio era una città piena di contraddizioni, dove la bellezza della cultura somala si scontrava con la brutalità del potere coloniale. La mia infanzia fu segnata da queste esperienze, da questi incontri con la sofferenza e l’ingiustizia. Ma ciò che rimase impresso in me fu il coraggio silenzioso di mio zio Aweso, un uomo che, nonostante tutto, aveva scelto di lottare per ciò che era giusto. E il coraggio di quel ragazzino, che non voltò le spalle a sua zia.

La legge contro il meticciato

La legge prevedeva pene severe per gli italiani che avessero relazioni sessuali con persone non italiane nelle colonie, compresa la reclusione e la perdita di privilegi civili, come titoli nobiliari o onorificenze. Anche le donne non italiane coinvolte in tali relazioni subivano conseguenze, sebbene non esplicitate dalla legge, che spesso si manifestavano in discriminazioni e stigmatizzazioni sociali. Le ripercussioni di questa legge furono devastanti per le comunità nelle colonie italiane, in particolare nell’Africa Orientale Italiana (Eritrea, Etiopia e Somalia). Le conseguenze principali includevano: 1. Separazione forzata delle famiglie: Molti nuclei familiari, in cui uno dei genitori era italiano, furono spezzati. I figli meticci venivano spesso allontanati dai genitori   italiani e inseriti in istituti speciali come il Collegio Femminile Regina Elena di Mogadiscio, dove venivano educati secondo i principi fascisti. 2. Discriminazione e stigmatizzazione sociale: Le persone di origine mista erano spesso trattate come cittadini di terza classe, con limitazioni nell’accesso all’istruzione, al lavoro e nella partecipazione alla vita sociale e politica. Questa discriminazione legale e sociale contribuiva a un senso diffuso di inferiorità e esclusione. 3. Traumi psicologici: Le separazioni forzate, la perdita dell’identità culturale e il senso di non appartenenza causarono profondi traumi emotivi in molte delle vittime di questa politica.

In conclusione, la legge contro il meticciato del 1940 rappresenta uno degli esempi più evidenti di come le politiche razziali possano distruggere vite umane e alterare il tessuto sociale di intere popolazioni. Riflette il tentativo estremo del fascismo di imporre una visione razzista del mondo, con conseguenze dolorose per diverse generazioni. Purtroppo, questa parte della storia coloniale e fascista italiana rimane ancora poco conosciuta e discussa, ostacolando una piena comprensione delle sofferenze subite. Inoltre, il Collegio Femminile Regina Elena di Mogadiscio era un luogo emblematico di queste contraddizioni: una struttura dove le politiche razziste si scontravano con le dinamiche sociali locali, evidenziando la complessità e la sofferenza generate dalle politiche di segregazione e assimilazione.

Il silenzio sulla sessualità coloniale e le leggi razziali fasciste: una ferita ancora aperta

Il colonialismo italiano, sebbene più tardivo rispetto a quello di altre potenze europee, replicò molte delle sue forme più brutali e violente, compresa la gestione della sessualità interrazziale. Fin dai primi insediamenti nel Corno d’Africa, alla fine dell’Ottocento, si instaurò un rapporto profondamente asimmetrico tra i militari italiani e la popolazione locale, in particolare nei confronti delle donne. La pratica del madamato – il concubinaggio tra uomini italiani e donne indigene – fu inizialmente tollerata e in certi casi incoraggiata, sia per ragioni logistiche che per un tacito riconoscimento dell’impossibilità, per molti coloni, di avere famiglie ufficiali al seguito. Questi rapporti, spesso predatori, erano segnati da un profondo squilibrio di potere: militari e funzionari occupavano una posizione dominante rispetto a donne spesso giovanissime, prive di diritti, di mezzi di tutela, e in molti casi costrette alla convivenza o ai rapporti sessuali in cambio di protezione, cibo o semplicemente sopravvivenza.

Il madamato non fu mai un’unione tra pari. Eppure, per decenni rappresentò una prassi diffusa, accettata e persino regolamentata informalmente nelle colonie italiane in Eritrea, Somalia, Libia ed Etiopia. Con l’avvento del fascismo e l’introduzione delle leggi razziali nel 1938, si produsse una netta inversione di rotta. Nel 1937, il regime aveva già promulgato un decreto che proibiva il madamato, definendolo un disonore per la razza italiana. Ma fu la legge del 13 maggio 1940, n. 822, a sancire in modo drammatico una nuova politica razziale nelle colonie: essa vietava agli italiani di riconoscere legalmente i figli nati da donne africane. Questi bambini, frutto di relazioni spesso imposte o squilibrate, venivano così resi invisibili dallo Stato, esclusi da qualsiasi diritto e marchiati come illegittimi, meticci, termine usato in senso dispregiativo per definire la loro condizione ibrida e scomoda. Secondo alcune stime, solo in Eritrea nacquero oltre 15.000 bambini da unioni miste; di questi, meno di 3.000 furono riconosciuti dai padri italiani. Gli altri furono lasciati nella più totale marginalità, condannati a vivere ai margini della società coloniale e poi, dopo il ritiro dell’Italia, a sopravvivere in una condizione di doppia esclusione: respinti tanto dalla comunità italiana quanto, talvolta, anche da quella locale, che li percepiva come simboli della dominazione.

Il destino di queste madri, abbandonate e stigmatizzate, fu spesso ancora più tragico. Donne che, dopo anni di convivenza con uomini italiani, si ritrovarono sole, con figli privi di cittadinanza, senza mezzi di sostentamento e senza alcun riconoscimento giuridico o morale. A nulla valsero gli appelli, le denunce, i tentativi di ottenere una qualche forma di giustizia: lo Stato italiano, durante e dopo il fascismo, scelse in larga misura la via del silenzio e della rimozione. Di queste vicende si parla pochissimo in Italia. Non compaiono nei manuali scolastici, raramente nei dibattiti pubblici, come se questa parte della storia italiana fosse troppo scomoda per essere ricordata. Eppure, le scripta manent. Esistono archivi, sentenze, documenti ufficiali che testimoniano la brutalità di certe scelte e l’ipocrisia con cui lo Stato italiano, mentre proclamava la superiorità della razza, sfruttava le donne africane e poi le gettava via.

Riportiamo di seguito alcuni estratti da sentenze dell’epoca fascista, che mostrano la pervicacia del regime nel reprimere i rapporti “di indole coniugale” tra italiani e donne locali, anche quando si trattava di relazioni stabili o durature: 1. “Il cittadino italiano XX è colpevole di aver mantenuto per più di un anno rapporti di convivenza con una indigena eritrea, in aperta violazione del regio decreto 880/1937, macchiandosi di comportamento contrario al decoro e all’orgoglio razziale della nazione.” (Tribunale militare di Asmara, 1940 – Archivio Centrale dello Stato, fondo MAI, Serie Africa Orientale Italiana). 2. “Il comportamento dell’imputato, che ha trattato come moglie una donna
nativa, rappresenta un grave affronto alla politica razziale del Regime e pone in pericolo la purezza della stirpe italiana.” (Corte coloniale di Addis Abeba, 1941 – Archivio di Stato di Roma, fondo Ministero dell’Africa Italiana). 3. “Si vieta ogni atto che possa far presumere un rapporto stabile e familiare tra cittadini italiani e soggetti indigeni: ciò include coabitazioni, sostegno economico regolare e riconoscimento della prole.” (Circolare riservata del Ministero delle Colonie, 1940 – Archivio Storico Diplomatico del MAECI).

Rapporti di Natura Coniugale: documenti e sentenze

Documento 2

RdL n. 880 del 19 aprile 1937 – Sanzioni per i rapporti di natura coniugale tra cittadini italiani e sudditi coloniali. Il cittadino italiano che, nel territorio del Regno o delle Colonie, intrattiene una relazione di natura coniugale con un suddito dell’Africa Orientale Italiana o con una persona straniera appartenente a popolazioni aventi tradizioni, costumi e concetti giuridici e sociali analoghi, è punito con una pena detentiva da uno a cinque anni.

Documenti 6-13
Sentenze

Tribunale di Addis Abeba, 13 gennaio 1938 – Caso Puccinelli e Ascalė Il 2 novembre u.s., i Carabinieri arrestarono Puccinelli Giuseppe, accusato di mantenere una relazione con l’indigena Ascalė Zaudié. Durante il processo, emerse che i due avevano convissuto per circa tre mesi, conducendo una vita more uxorio (da coniugi), dormendo nello stesso letto, condividendo i pasti e vivendo insieme senza che la donna ricevesse alcuna remunerazione per il suo lavoro domestico o per le sue prestazioni carnali. Il Tribunale applicò il Regio Decreto Legge che proibisce tali relazioni, in linea con la politica coloniale del governo fascista, il cui scopo era preservare la superiorità della razza italiana e impedire la commistione con razze considerate inferiori. Il decreto mirava a evitare la nascita di popolazioni meticce, considerate fisicamente e moralmente inferiori, e a prevenire la perdita di prestigio della razza dominatrice.

Corte d’Appello di Addis Abeba, 3 gennaio 1939 – Caso Melchionne Si configura il “madamismo” quando un cittadino italiano convive con un’indigena, trattandola non come una domestica ma come una compagna di vita, anche se temporanea. In questo caso, i rapporti carnali assumono la connotazione di una relazione coniugale.

Corte d’Appello di Addis Abeba, 3 gennaio 1939 – Caso Giuliano Un cittadino italiano confessò di aver avuto una relazione sessuale ricorrente con un’indigena, confermata anche dalla donna. Tale relazione, caratterizzata non solo da incontri sessuali, ma anche da un affetto reciproco, configurava il reato di “madamismo” poiché rispecchiava una relazione di natura coniugale.

Corte d’Appello di Addis Abeba, 31 gennaio 1939 – Caso Seneca Il tribunale giudicò un cittadino italiano che aveva instaurato una relazione con un’indigena, portandola con sé nei vari trasferimenti e trattandola come compagna. L’uomo aveva speso tutti i suoi risparmi per lei e si era persino rivolto al Re per ottenere l’autorizzazione a sposarla. Sebbene fosse incensurato, la Corte impose una pena detentiva, ritenendo che il coinvolgimento emotivo con la donna avesse compromesso il suo ruolo come membro della razza dominatrice.

Corte d’Appello di Addis Abeba, 7 marzo 1939 – Caso Russo Per configurare il delitto di madamismo, non bastano i rapporti sessuali: occorre una convivenza che esternamente assomigli a un matrimonio di fatto. In questo caso, una domestica indigena, seppure coinvolta in relazioni sessuali con il suo datore di lavoro, non veniva considerata sua compagna di vita, e quindi non si configurava il reato.

Corte d’Appello di Addis Abeba, 14 marzo 1939 – Caso Re Non si configura il madamismo nel caso di un cittadino italiano che tiene in casa una donna indigena come domestica e occasionalmente ha rapporti sessuali con lei. La relazione, priva di stabilità e durata tali da essere considerata una convivenza coniugale, non era punibile.

Corte d’Appello di Addis Abeba, 11 luglio 1939 – Caso De Gioia Una prostituta indigena fu trovata nel letto del suo datore di lavoro italiano. Tuttavia, non si configurò il reato di madamismo poiché la donna continuava a esercitare la prostituzione e i rapporti sessuali non erano esclusivi o continuativi.

Corte d’Appello di Addis Abeba, 5 settembre 1939 – Caso Fagà Si configurò il madamismo nel caso di un cittadino italiano che aveva una relazione continuativa con una domestica indigena, che condivideva la tavola e il letto con lui.

Questi documenti, crudi nella loro prosa burocratica, raccontano molto più di ciò che le parole sembrano dire: raccontano l’umiliazione di madri ridotte a concubine e poi abbandonate, di bambini esclusi dai diritti più basilari, di uomini puniti per avere amato o vissuto fuori dagli schemi imposti dal regime. Oggi, mentre si moltiplicano le riflessioni sul colonialismo e le sue eredità, è urgente riportare alla luce queste storie, ridare voce ai dimenticati, e affrontare il passato con onestà. La rimozione, l’indifferenza, il silenzio non fanno che prolungare l’ingiustizia.

Bibliografia essenziale:

  • Del Boca, Angelo. Gli italiani in Africa Orientale. Vol. 1-4. Roma-Bari: Laterza, 1976-1984.
  • Labanca, Nicola. Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana. Bologna: Il Mulino, 2002.
  • Sorgoni, Barbara. Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia Eritrea. Napoli: Liguori, 1998.
  • Ben-Ghiat, Ruth. Italian Fascism’s Empire Cinema. Bloomington: Indiana University Press, 2015.
  • Ponzanesi, Sandra. Paradoxes of Postcolonial Culture: Contemporary Women Writers of the Indian and Afro-Italian Diaspora. Albany: SUNY Press, 2004.
  • Fuller, Mia. Moderns Abroad: Architecture, Cities and Italian Imperialism. London: Routledge, 2006.
  • Taddia, Irma. Donne e madri nelle colonie africane: Eritrea e Somalia, 1885–1941. Firenze: Le Lettere, 2012.

Omar Giama

(12- prosegue…)