Zio Aweso e zio Salim avevano trovato speranza nell’istruzione, uno strumento potente che li aveva sollevati dalla povertà e dalle limitazioni del nostro villaggio nel Basso Giuba. Fu proprio grazie a quell’istruzione che riuscirono a distinguersi, ottenendo una posizione di rilievo a Mogadiscio, lavorando negli archivi del Ministero della Pubblica Istruzione. Il loro lavoro negli archivi ministeriali richiedeva una minuziosa attenzione ai dettagli e una profonda conoscenza delle procedure burocratiche. Gli archivi erano il cuore della memoria istituzionale del paese, e gli zii erano diventati i custodi di quel patrimonio. Conoscevano a fondo leggi, storie e politiche che avevano plasmato la nazione. La loro precisione e affidabilità guadagnarono loro il rispetto dei colleghi e dei superiori, nonostante le difficoltà legate alla loro appartenenza a una minoranza etnica.
Zio Aweso e zio Salim erano fieri di essere della tribù dei Wazigua, anche se spesso erano discriminati e marginalizzati nella società somala. Tuttavia, l’istruzione aveva permesso loro di superare in parte queste barriere, affermandosi come persone competenti e rispettate. Il loro ruolo professionale li aveva resi indispensabili, dimostrando che la competenza, pur con difficoltà, poteva trascendere le discriminazioni etniche. Il contrasto tra la loro vita a Mogadiscio e quella lasciata nel Basso Giuba era evidente. Nel villaggio, la povertà era onnipresente: la terra arida e la mancanza di opportunità limitavano ogni aspirazione. Al contrario, a Mogadiscio gli zii vivevano in un discreto benessere, con
accesso a beni e servizi impensabili nel villaggio. Questa disparità suscitava sentimenti contrastanti tra gli abitanti del villaggio: ammirazione per il successo ottenuto e un senso di distanza, quasi di invidia, per una vita che sembrava lontana e irraggiungibile.
Verso Mogadiscio
Non era come il viaggio verso la foresta di Ciringo, quello. A Ciringo ci si poteva arrivare a piedi, col passo costante e il tempo a favore. Ma Mogadiscio era un’altra cosa. Mogadiscio stava lontana, più lontana ancora dei chilometri che la separavano da Chisimaio. Stava in un altro mondo, dentro un’altra luce, fatta di promesse non dette e di silenzi che pesavano come pietre.
La mattina della partenza l’aria aveva ancora il sapore della notte. Mio padre mi svegliò senza parole, con un tocco leggero sulla spalla, come si fa con chi deve affrontare una prova. Ci avviammo a piedi lungo la strada principale, quella che portava verso nord. Era una lingua di terra rossa, battuta da secoli di passi e di ruote, ai margini della quale solo i baobab sembravano resistere al sole e al tempo. Giungemmo in un punto aperto, dove la visuale era ampia e la strada correva libera. Lì ci fermammo. Mio padre si mise a bordo strada, con lo sguardo fisso in direzione del nulla. Ogni volta che passava un mezzo, alzava la mano con l’autorità misurata di chi ha diritto di farsi ascoltare. Ma nessuno si fermava. Il tempo passava lento, come in una sala d’attesa senza pareti. Tre ore, forse di più. Alla fine, un camion sgangherato rallentò, cigolando come una vecchia porta arrugginita. Era carico di banane, verdi e ancora acerbe. L’autista e mio padre parlarono brevemente. Le parole furono poche, secche. Poi mio padre annuì. “Sali,” mi disse, senza enfasi.
L’uomo mi porse una mano ruvida, e io mi arrampicai sul cassone con fatica, scivolando leggermente sulla pelle liscia delle banane. Mio padre mi seguì, e ci sedemmo su un casco massiccio, tra i frutti ancora duri e freddi. Il camion ripartì con uno strappo secco, sollevando una nuvola di polvere che sembrava volerci trattenere indietro. Il villaggio iniziò a scomparire dietro di noi, inghiottito da curve e distanza. Fu allora che li vidi. I miei coetanei erano laggiù, fermi in fondo alla strada, immobili come figure di creta. Mi guardavano con occhi spalancati, pieni di meraviglia e qualcosa che non riuscivo a definire: forse timore, forse invidia, forse un muto addio. E io, per la prima volta, sentii che qualcosa di profondo si stava chiudendo alle mie spalle. Una porta invisibile che divideva l’infanzia da qualcosa d’altro.
Sentivo la paura. Sentivo il dubbio. Sentivo la stranezza di quel silenzio tra me e mio padre, che sedeva accanto a me senza dire nulla, guardando fisso davanti a sé. Il camion sobbalzava di continuo, e ogni scossa ci faceva ondeggiare sulle banane, come se viaggiassimo sul dorso di un animale instabile. Non c’era tetto sopra di noi, solo il sole sempre più alto e il vento pieno di polvere. Le narici si riempivano dell’odore dolciastro della frutta matura, mescolato a sudore e ruggine. La schiena mi doleva. Le gambe intorpidite.
“Perché andiamo a Mogadiscio?” avevo chiesto il giorno prima. Mio padre aveva distolto lo sguardo. “Per il tuo bene”, aveva risposto. Nient’altro. Ma io sentivo che c’era di più. Ogni suo silenzio era una confessione mancata. Ogni gesto misurato una barriera tra lui e me. Portava dentro un segreto. Lo sapevo. E ora quel segreto mi portava lontano, verso la città che non conoscevo, verso qualcosa che ancora non riuscivo nemmeno a immaginare. Perché proprio io? Perché adesso? Perché questo viaggio, senza spiegazioni? Dentro di me, qualcosa si muoveva, un nodo che saliva verso la gola. Non era solo paura. Era un senso di destino, come se stessi entrando in una storia già scritta da altri, da forze invisibili, da mani lontane. Guardai mio padre. Le sue mani erano forti, callose, le mani di chi ha sempre avuto la terra come compagna. Mi fidavo di lui, sì. Ma sentivo che anche lui era solo un tramite. Non era lui a condurmi: era il destino che lo guidava.
Il camion proseguiva, il paesaggio cambiava lentamente. La vegetazione si faceva più rada, i colori più spenti. E io, seduto tra le banane, col vento che mi sferzava il volto, sentii che la mia vita stava cambiando. Una parte di me si ribellava, l’altra si rassegnava. E un’altra ancora – la più silenziosa – aspettava. Aspettava l’incontro con ciò che era scritto, da qualche parte, forse nel vento, forse nei sogni della veggente Mama Mchiwa.
Arrivammo a Mogadiscio all’imbrunire
Il cielo stava cambiando colore, come se qualcuno lo stesse sfumando con dita leggere. Il sole, basso sull’orizzonte, gettava una luce dorata sulle facciate degli edifici coloniali, facendo brillare i vetri rotti, le persiane accostate, le cupole bianche delle moschee. L’aria sapeva di sale e polvere, e un vento caldo soffiava da sud, carico di sabbia fine che pizzicava gli occhi e i ricordi. Le palme lungo la strada sembravano sagome immobili contro il cielo rosso. Era una bellezza stanca, come Mogadiscio stessa: affascinante e decadente.
Ero stanco morto. Dalla mattina non avevo mangiato nulla e non avevo avuto neppure il tempo di andare in bagno. Il viaggio era stato lungo e faticoso, e il caldo mi aveva prosciugato. Appena scesi, ci venne incontro un Apecar coperto, un trabiccolo che sembrava tenuto insieme più dalla speranza che dalle viti. Il motore tossiva come un vecchio fumatore e ogni buca lo faceva sobbalzare con un cigolio metallico che faceva temere che si sarebbe disintegrato da un momento all’altro. Mio padre indicò con decisione al tassista il quartiere dove abitavano gli zii. L’uomo annuì in silenzio, poi ci caricò a bordo e partì, facendo ondeggiare il veicolo come una barca nella corrente.
Arrivammo proprio sotto casa loro. La porta si aprì prima ancora che bussassimo. Gli zii ci accolsero con abbracci caldi, come se ci aspettassero da tempo. Non sembravano sorpresi. E questo mi colpì. La moglie dello zio Salim era giovane e bella, con tratti delicati e occhi profondi, scuri come il caffè della nostra terra. I suoi gesti erano gentili, ma su di lei aleggiava un velo di malinconia difficile da spiegare a parole. Non era infelicità vera, ma una tristezza quieta, quasi contenuta, come una ferita mai del tutto rimarginata. Lo capii presto: non poteva avere figli. Non lo disse, ma lo si leggeva nei suoi silenzi e negli sguardi persi nel vuoto. Eppure, quando posò gli occhi su di me, si fece più viva, quasi luminosa. Sentii che la mia presenza le dava un sollievo inatteso. Lo zio sembrava osservare ogni mio gesto con una curiosità trattenuta, come se cercasse qualcosa in me. La zia, ogni tanto, si bloccava mentre mi guardava e poi distoglieva lo sguardo, come sorpresa da un pensiero.
Avevo la sensazione che sapessero qualcosa. Anzi, ero certo che sapessero qualcosa su di me. Sentivo i loro occhi su di me quando voltavo le spalle. C’era un segreto, qualcosa che mi riguardava e che non veniva detto, almeno non ancora. E poi c’era quel nome: Pina Ziani. Lo avevo sentito solo una volta, da Padre Goffredo. Una donna? Un’amica? Una presenza lontana, misteriosa, come una figura sfocata in un sogno. Nessuno ne parlava, e ogni volta che cercavo di avvicinarmi all’argomento, gli adulti cambiavano discorso con una rapidità sospetta.
Chi era? E soprattutto…cosa c’entrava con me? Mentre la sera calava su Mogadiscio, e il richiamo del muezzin si alzava tra i tetti, sentii che
il mio arrivo non era stato casuale. E che qualcosa stava per accadere.
La notte scese rapida su Mogadiscio. Il cielo si fece profondo, denso come velluto blu. Le stelle punteggiavano l’oscurità con una chiarezza che in città non avevo mai visto prima. L’aria era più fresca, ma portava con sé l’odore della terra calda, delle spezie, del mare vicino. Si udivano suoni lontani: qualche voce, un cane che abbaiava, il rumore vago del vento tra i tetti di lamiera. Il canto del muezzin si era ormai dissolto nell’eco delle cupole. La casa degli zii aveva un cortile interno, semplice, con piante di buganville e vasi d’argilla posati con cura. La luce gialla delle lampade a petrolio proiettava ombre tremolanti sui muri, creando figure mobili, quasi vive. Era tutto familiare eppure stranamente estraneo, come un luogo che avevo forse conosciuto in un’altra vita.
La cena fu servita su una stuoia intrecciata, al centro della stanza. Un piatto grande di riso profumato, con carne speziata e verdure dolciastre. C’era pane sottile, quasi trasparente, e una bevanda tiepida al tamarindo. Gli zii mangiavano con le mani, con grazia, e mi
invitarono a fare lo stesso. Io li osservavo in silenzio, tentando di non mostrare il turbamento che cresceva dentro di me. C’erano gesti troppo misurati, sorrisi troppo calibrati. Come se ogni parola fosse pesata, ogni sguardo controllato. La zia mi porse un pezzo di carne, con uno sguardo pieno di tenerezza. «Mangia, figlio mio».
La legge dei figli
A Bulo Yak, il villaggio dove sono nato, le capanne erano disposte come un grande abbraccio attorno a una radura. Mia zia, prima di andare a Mogadiscio, abitava in una di queste, proprio accanto a quella dei miei genitori. Non aveva figli suoi, e forse per questo mi aveva quasi adottato. Mi voleva bene come a un figlio vero, e io passavo più tempo nella sua capanna che nella mia. Con lei mi sentivo speciale: ero l’oggetto di un affetto silenzioso ma profondo, di quelli che non chiedono nulla in cambio, solo presenza. Mia madre, però, vedeva le cose diversamente. Aveva 8 figli, e probabilmente zia pensava che un figlio in meno da accudire le avrebbe fatto piacere. Ma si sbagliava. Mia madre era fiera della sua maternità, gelosa del suo ruolo. Una sera, mentre eravamo tutti riuniti attorno al fuoco — io, i miei fratelli, mio padre — lo disse chiaramente, con tono secco, tagliente: «Domani non ci vai più dalla zia. Stai qui. Se la zia vuole dei figli, se li deve fare per conto suo. Io non ho fatto figli per regalarli agli altri». Parole dure, che ancora oggi mi pungono dentro. Ma in quella frase c’era tutta la legge della nostra tribù: più figli hai, più sei considerato ricco. I figli erano forza lavoro, braccia nei campi, eredità vivente. Chi non ne aveva, era condannato a una povertà non solo materiale, ma anche simbolica. Mia madre, con undici figli, era una regina nel villaggio. Governava la sua corte con disciplina ferrea. La ricordo ormai anziana, con l’Alzheimer che le sfilacciava la mente, seduta nella penombra della sera a ripetere ossessivamente: «È sera… bisogna dare da mangiare ai bambini… è sera… bisogna dare da mangiare ai bambini…». Anche quando tutto si spegneva, in lei restava quel riflesso: il dovere sacro della madre.
Dopo cena, mi mostrarono la mia stanza. Era piccola ma pulita, con un materasso basso e una coperta leggera. Dalla finestra si vedeva una palma solitaria, e il cielo trapunto di stelle. Mio padre mi accarezzò la testa prima di uscire. «Domani parleremo, dormi ora». Ma la sua
voce era incerta. Non era il solito padre deciso, concreto. C’era esitazione. O timore? Mi sdraiai. Il ronzio lontano di un generatore accompagnava il silenzio della casa. Cercai il sonno, ma qualcosa dentro di me restava sveglio, come un animale in allerta.
Collegio regina Elena e leggi razziali
La mattina dopo ero stanco, insonnolito, con le palpebre pesanti come pietre. Avevo avuto incubi per tutta la notte: sogni spezzati, immagini confuse, volti che non riconoscevo ma che sembravano chiamarmi. Al mio risveglio, ancora confuso e con un senso di inquietudine che non riuscivo a scrollarmi di dosso, gli zii mi dissero che dovevo prepararmi. Saremmo andati a visitare un collegio. La parola “collegio” mi fece sobbalzare. Mi evocava immagini di ragazzi soli, orfani, bambini tristi con il volto contro i vetri, occhi che aspettano qualcuno che non arriva mai. Pensai subito a mio fratello Nuru. Sapevo che era stato mandato in collegio. Forse andavamo a trovare lui? Ma nessuno me lo confermò. Gli zii, quella mattina, parlavano poco e avevano un tono insolitamente severo. Una tensione sottile attraversava ogni loro gesto.
Camminammo per circa quaranta minuti in silenzio, attraversando zone sempre più tranquille della città. A poco a poco lasciammo alle spalle il frastuono del mercato, le voci dei venditori, il suono dei clacson e l’odore pungente del pesce e delle spezie. Le strade si fecero più ampie, bordate da alberi di tamarindo , e gli edifici assumevano un’aria più sobria, quasi distante. Il sole del mattino filtrava tiepido tra i rami, ma io continuavo a sentire un gelo dentro. Infine giungemmo in una piazzetta silenziosa, dove il rumore della città sembrava essersi dissolto. Di fronte a me, in grandi lettere sbiadite, lessi: Collegio Femminile Regina Elena.
L’edificio si stagliava davanti a noi con una imponenza che metteva soggezione. Costruito in stile coloniale, sembrava più una fortezza che una scuola. Le alte colonne bianche, perfettamente simmetriche, reggevano una facciata austera, senza alcun ornamento. Le finestre, lunghe e strette, erano protette da pesanti persiane chiuse, come se l’edificio volesse difendersi dal mondo esterno, o forse impedire al mondo di vedere ciò che conteneva. Il cortile interno, però, era sorprendentemente curato. Al centro c’era un piccolo giardino dove crescevano bouganville e ibischi dai colori accesi, come un tentativo di bellezza in un contesto altrimenti severo. Ma non bastava a cancellare la sensazione di gelo che mi avvolgeva. Tutto lì parlava di ordine, disciplina…e solitudine. E poi c’erano loro: le ragazze. Passavano silenziose, in piccoli gruppi, vestite con uniformi semplici. I loro passi erano leggeri, quasi impalpabili, eppure ogni volto che incrociavo sembrava portare inciso un dolore muto. Erano sguardi che evitavano il contatto diretto, sguardi che parlavano di un’assenza profonda, di un vuoto incolmabile. Una malinconia collettiva pareva avvolgere quel luogo come una nebbia.
Mentre lo zio Salim parlava con la direttrice del collegio lo zio Aweso, che fino a quel momento aveva mantenuto il silenzio, si avvicinò a me. La sua voce, quando parlò, era bassa, ma densa di amarezza. «Questo collegio ospita ragazze meticce» mi disse. «Figlie di donne somale e uomini italiani. Durante il periodo coloniale e sotto il regime fascista, furono strappate alle loro madri, chiuse qui dentro. Le leggi razziali non permettevano che crescessero in famiglia. Dovevano essere isolate. Cresciute lontano da tutto ciò che era somalo, lontano dalla loro gente, dalla loro lingua, dalla loro identità». Quelle parole mi colpirono come un pugno. Guardai ancora una volta quelle ragazze: non erano semplicemente studentesse. Erano prigioniere di una storia che non avevano scelto. «Il fascismo» continuò zio Aweso, «ha fatto questo. Ha distrutto famiglie, cancellato affetti, ridotto la vita a una sequenza di regole crudeli, imposte nel nome di un’ideologia malata. Hanno insegnato a queste ragazze che non potevano esistere così come erano nate. Le hanno fatte sentire colpa vivente di qualcosa che invece era amore». Gli zii lavoravano in un ministero, ma non avevano mai accettato quel sistema. Le leggi razziali, dicevano, erano una vergogna, un’onta incancellabile. Una ferita aperta.
Io ascoltavo in silenzio, ma dentro di me cresceva una domanda: Perché gli zii venivano spesso qui? Non avevo il coraggio di chiedere, ma sentivo che c’era qualcosa di non detto, un legame nascosto, forse una storia personale intrecciata a quel luogo di silenzi e di dolore. In quel momento, capii che il mistero non era solo nel collegio, ma anche nei miei zii.
Omar Giama
(11- prosegue…)














