Porte arrivate da Vienna, una televisione da Bologna, mobili dalla Caritas diocesana, cucina montata pezzo dopo pezzo grazie agli amici. Due anni dopo l’alluvione che ha devastato Faenza, Giuseppe Carroli alla fine del 2024 è tornato a vivere nella sua casa in via Carboni, assieme alla sorella. Non è una normalità come quella di prima, ma è una normalità conquistata giorno dopo giorno, grazie a una rete silenziosa ma potente di solidarietà. La linea della speranza, partita a maggio 2023, che continua, senza grandi riflettori, ancora oggi. «Se oggi posso vivere di nuovo nella mia casa, è merito di tante persone, molte delle quali non conoscevo neppure», racconta Giuseppe, pensionato, con voce ferma e occhi pieni di riconoscenza. «La solidarietà è arrivata da vicino e da lontano, in forme inattese: perfino le porte scure che ora ho in casa arrivano da un misterioso donatore viennese».
“Il problema adesso è la comunità”
Oltre alle donazioni materiali, c’è stato il supporto concreto di amici e volontari che hanno aiutato a montare i mobili, a trasportare gli acquisti per risparmiare sulle spese di consegna, a sistemare ogni angolo della casa danneggiata dal fango. La parrocchia di San Terenzio e diverse realtà ecclesiali come l’Arciconfraternita delle Grazie e la Caritas non hanno mai smesso di tendere la mano. Tuttavia, la ricostruzione non riguarda solo i muri. Giuseppe ne è consapevole: «Il problema adesso è la comunità. Le case stanno tornando in piedi, ma le persone no. Molti in questo quartiere non sono rientrati per paura, per motivi economici o di salute. Le vie sono vuote, e anche quando le case vengono affittate, non è più come prima. Il rischio è che, ricostruite le case, rimanga un deserto intorno».
Tra burocrazia e paura della pioggia, si cerca una nuova quotidianità
Il quartiere oggi è spoglio: poche famiglie, molti anziani, tante abitazioni ancora disabitate. «Di fronte a me – racconta – ci sono tre case che non hanno ancora fatto nulla. Chi può vende, chi può affitta. Ma è difficile che torni la Faenza di prima». Anche la burocrazia ha giocato un ruolo complicato. «Senza l’aiuto del mio studio tecnico, non avrei saputo dove mettere le mani sulla piattaforma Sfinge», dice Giuseppe. Ha ottenuto 65mila euro di rimborso, di cui circa metà già ricevuti: i fondi stanno permettendo i lavori al piano superiore della casa, pensato come rifugio in caso di nuove emergenze.
E la paura, in effetti, è ancora lì. «Quando piove forte, il pensiero corre subito a quei giorni. Durante l’alluvione sono rimasto sul tetto per 12 ore. Non si dimentica facilmente». La casa di Giuseppe è anche diventata come un presidio della memoria: ogni oggetto al suo interno racconta un gesto di aiuto, un pezzo di strada percorsa verso la rinascita, «vedere la casa che si ricostruisce ti dà la forza di andare avanti». C’è bisogno di ritrovare la comunità, insiste Giuseppe. «Bisogna stare in mezzo alla gente, ricreare legami, fiducia. Solo così possiamo ripartire davvero». Due anni dopo, in via Carboni non è tutto come prima. Ma c’è una casa abitata, piena di storie e di gratitudine. E tutto questo tiene viva la linea della speranza.
Samuele Marchi