Oriolo dei 1000 Fichi, estate del 1975: una premessa

C’era un tempo sospeso, adagiato tra le colline di Oriolo, dove il silenzio del pomeriggio sembrava trattenere il respiro, come in attesa di qualcosa di sacro. La nostra casa di campagna – che mio babbo, professore di latino e greco, con affettuosità classica, chiamava Aureolanum – era un piccolo universo, un rifugio fatto di ricordi, voci sapienti e ombre antiche. Era il cuore di un mondo che pulsava lento, al ritmo della terra, del vento e della memoria.

Quel giorno d’agosto del 1975 – un agosto torrido e impietoso, che faceva vibrare l’aria come la corda di un’arpa invisibile – tutto sembrava fermarsi attorno al salotto “Pompeiano”, un pergolato semplice e maestoso, delimitato da quattro colonne in cotto grezzo, sulle quali si arrampicava, pigra e verdissima, la vite americana. Al centro, un grande tavolo di ceramica blu e ocra, screziato come il cielo al tramonto.

Io, ancora studente liceale, mi sedevo in disparte, con l’anima spalancata. Cercavo di bere, goccia a goccia, la linfa viva della sapienza di quei giganti che per me erano quasi divini. Facevo come nel mio villaggio africano, a Bulo Yak, quand’ero bambino: sedevo ai piedi del grande tamarindo e ascoltavo gli anziani parlare con voce lenta e bassa, mentre i miei occhi inseguivano il cielo e le mani giocavano con la polvere rossa.

Quel pomeriggio, tra le colonne pompeiane, Carlo Bo e Renato Lazzarini conversavano come due antichi filosofi sotto il portico di Atene. Carlo Bo – allora rettore dell’Università di Urbino – aveva l’aria assorta di chi vive contemporaneamente nel mondo e fuori di esso. Fumava un sigaro scuro, di quelli toscani, che accendeva con gesti misurati, quasi rituali. Ogni boccata era un atto meditativo. Il fumo si alzava lento e denso, profumando l’aria di cuoio e tabacco stagionato. Sembrava che parlasse anche quel fumo, disegnando arabeschi nell’aria come geroglifici di pensieri.

Di fronte a lui, Renato Lazzarini, alto, asciutto, con i capelli bianchissimi che parevano scolpiti nel marmo. Aveva una postura che non era solo fisica, ma psicologica: diritta, solida, quasi stoica. Lo osservavo con ammirazione tremante. Quando parlava, la voce era piana, sicura, e le parole uscivano come scolpite in pietra.

Parlavano della morte. Con calma. Con dignità. Con una specie di affetto filosofico. Era come se stessero togliendole il mantello, per guardarla negli occhi. Fu in quel momento che il prof. Lazzarini citò con voce ferma una sentenza attribuita a Publilio Siro, poeta e drammaturgo Romano (85-43 a.C)

“Fortis est qui se vincit in metu mortis.”
(È coraggioso colui che sconfigge la paura della morte.)

Lui spiegò, con una semplicità vertiginosa, che dominare la paura della morte significa aver vinto la battaglia più difficile: quella contro se stessi. Il vero forte non fugge, non lotta: guarda.

Io rimasi muto. Mi accorsi che dentro di me qualcosa si stava smuovendo. Forse era un’inquietudine antica, forse era un seme. Capivo – o meglio, intuivo – che mi mancava ancora quell’equilibrio, quella serenità che loro sembravano possedere come una seconda pelle. Avrei voluto toccarla, quella libertà interiore. Respirarla.

Nel frattempo, come una carezza discreta del quotidiano, arrivò zia Nina, minuta, silenziosa come una presenza monastica, col grembiule a fiori e il sorriso sempre dolce. Portava un vassoio di dolcetti alle mandorle e due bottiglie del nostro Sangiovese, dal profumo ruvido e generoso. Il vino luccicava nei bicchieri come sangue di terra. L’odore si mescolava al tabacco, ai fichi maturi, al caldo del cotto e delle pietre. Era il profumo di casa, di agosto, di Romagna.

Mi pareva che tutto, in quel momento, fosse sacro: le parole, il silenzio, la luce che batteva obliqua sul viso dei miei maestri, persino il frinire delle cicale. Mi sentivo piccolo, ma anche parte di un disegno più grande. Desideravo con tutto me stesso imparare, crescere, trovare quella fermezza dello sguardo che Bo e Lazzarini avevano quando parlavano della morte. Non volevo più scappare. Volevo restare. Guardare. Comprendere.

Quella giornata non mi ha mai lasciato. Ogni volta che sento l’odore del tabacco forte o il sapore del nostro vino, ogni volta che penso alla morte, mi ritorna quell’immagine: due uomini che non erano più giovani, seduti sotto un pergolato, che parlavano della fine come si parla di un viaggio atteso, e io, lì accanto, a imparare come si diventa liberi. Fu  solo in quel momento, con quei due uomini colti, che  feci pace con me stesso, che mi sparì il  senso di colpa per aver ucciso un animale feroce in modo crudele: stavo imparando a “dominare la paura della morte”.

Casa a oriolo dei Fichi con monsignor Arganni Zia Nina Antonio mamma
Casa a oriolo dei Fichi con monsignor Arganni, Zia Nina, Antonio, mamma

Viaggio con mio padre

Dopo il rituale Mviko, feci il primo viaggio nella foresta con mio padre, prima di essere autonomo

 “Svegliati, Omar, è ora. Dobbiamo andare.”

“Ma… è ancora buio, babbo. Non si vede niente.”

“Lo so, è presto. Ma è il momento giusto per controllare le trappole. Gli animali si muovono di notte.” replicò mio babbo

Sentivo la stanchezza che mi appesantiva le palpebre. Mi girai nel letto cercando di resistere alla chiamata, ma la voce di mio padre era decisa. Mi alzai, ancora assonnato. Fuori era buio pesto, l’aria era fresca, quasi fredda, e rabbrividii al solo pensiero di uscire in quella totale oscurità. “Babbo… non possiamo aspettare un po’? Non c’è luce, non vedremo niente nella foresta.” “La luce non serve. Ci basta la luna e il nostro sentiero. Fidati di me.”

Il cuore cominciò a battermi più forte. La foresta… così vicina al villaggio, ma così lontana dalla sicurezza che conoscevo. Ogni storia che avevo sentito sugli animali selvatici, sui suoni inquietanti che uscivano dalla fitta vegetazione, tornava in mente. Mi vestii in fretta, le mani tremavano un po’ mentre infilavo la camicia.

 “Ma… e se incontriamo qualcosa di pericoloso? Gli animali potrebbero essere lì, vicino alle trappole.” “Gli animali sentono la nostra presenza molto prima che noi possiamo vederli. E si tengono lontani. Non avere paura. Devi solo stare attento a dove metti i piedi” continuò mio padre. La sua voce era ferma, ma rassicurante. Cercavo di trarre forza dalla sua sicurezza, ma non riuscivo a scacciare il nodo nello stomaco. Uscimmo di casa e mi ritrovai circondato dall’oscurità della notte. Solo il rumore dei nostri passi interrotti dal silenzio assoluto. “Babbo… è così silenzioso. Non si sente nemmeno il vento” dissi io. “Il silenzio della notte è come una coperta. Nasconde tutto. Ma non preoccuparti, non siamo soli. La foresta è viva anche se non la senti” rispose mio babbo

Quelle parole mi misero ancor più in tensione. Ci addentrammo nel sentiero che portava alla foresta, e ogni fruscio tra gli alberi sembrava più sinistro. Il cuore mi martellava forte. Avevo paura di guardare in profondità tra gli alberi, come se potessi vedere qualcosa che non volevo vedere. “Babbo… sento qualcosa.” Mi fermai all’improvviso, fissando l’ombra di un grosso cespuglio che sembrava muoversi. “È solo il vento. A volte, le cose non sono come sembrano nel buio. Continua a camminare, sono io davanti” mi rassicurò mio babbo. Sospirai cercando di calmarmi, ma ogni passo sembrava portarmi più vicino all’ignoto. La tensione cresceva man mano che ci avvicinavamo alla zona delle trappole. Ogni fruscio mi faceva sussultare.

“Babbo… sicuro che siamo soli qui?” “Gli animali sono più spaventati di noi. Loro sanno che la foresta non è solo casa loro, ma anche nostra” disse mio babbo. Annuii, cercando di convincermi, ma ogni volta che la luna spariva dietro le nuvole, la foresta diventava un luogo ostile, pieno di ombre e suoni indistinti. Ma sapevo che mio padre era lì, davanti a me, e alla fine, per quanto avessi paura, mi fidavo di lui.

Durante quel viaggio notturno, il terrore mi attanagliava. Avevo paura di stare davanti a lui, temendo di essere aggredito da un animale feroce che potesse sbucare all’improvviso dalla vegetazione oscura. Allo stesso tempo, avevo timore di stargli dietro per lo stesso motivo. Immaginando che qualcosa potesse balzare su di me dall’ombra. Così, fianco a fianco, ci inoltrammo lungo uno stretto sentiero nella foresta. Ogni passo era un assalto ai miei sensi. Il rumore delle foglie sotto i nostri piedi, i suoni inquietanti degli animali notturni e il fruscio dei rami mossi dal vento sembravano amplificare la mia paura. In quella zona della foresta passavano periodicamente mandrie di antilopi, e spesso uno di questi animali finiva in una delle tagliole.

Mentre avanzavamo, il mio cuore batteva sempre più forte. Il silenzio di mio padre era opprimente, la sua figura una silhouette scura contro il debole bagliore della luna. L’oscurità ci avvolgeva, rendendo difficile vedere oltre pochi metri davanti a noi. Cominciò ad albeggiare quando raggiungemmo la zona dove erano state posizionate le trappole. La luce dell’alba filtrava attraverso gli alberi, creando ombre lunghe e minacciose. Mio padre si muoveva con sicurezza, mentre io cercavo di tenere il passo, guardando nervosamente intorno a me.

In una di queste tagliole, vedemmo qualcosa che ci fece fermare di colpo. Era incastrato con una zampa un animale dall’aspetto spaventoso, probabilmente una iena: grosso, maculato, con il muso nero. La bestia emetteva grida strazianti, cercando disperatamente di liberarsi. Il sangue colava dalla sua zampa ferita, tingendo il terreno di rosso scuro. Era una classica tagliola composta da una morsetta metallica con orlatura a denti di sega per trattenere la preda. Il funzionamento avveniva mediante uno scatto di una molla in tensione, attivato dal peso dell’animale che faceva abbassare una piastra collegata a un arco di percussione.

Il mio respiro si fece corto, e sentii un brivido gelido lungo la schiena. Mio padre, senza esitazione, si avvicinò all’animale e mi ordinò di restare indietro, ma i miei piedi sembravano incollati al suolo. L’odore di sangue e la vista della iena ferita mi paralizzavano.

Ogni secondo sembrava un’eternità. Guardavo la scena con occhi spalancati, il cuore che batteva all’impazzata. La tensione era insostenibile, e la paura di essere attaccato da quella creatura disperata mi rendeva rigido come una statua.

Appena l’animale ci vide, mostrò i denti affilati. Nonostante fosse ferito, mostrava un coraggio straordinario, dimenandosi ferocemente e lasciando colare bava dalla bocca. Cercava di farci paura o forse di chiedere aiuto, ma tutto ciò che percepivo era la minaccia immediata e tangibile della sua aggressività.

L’uccisione della iena

Spotted hyena Crocuta crocuta

Mio padre mi diede un grosso bastone e mi disse di colpirlo con tutta la forza che avevo. Tremavo, sudavo, il cuore mi batteva forte e la testa mi scoppiava dal dolore. Mi sentivo sopraffatto dall’ansia e dalla paura. Dissi a mio padre che stavo per svenire e che non riuscivo a tenere in mano il bastone. Sentivo le gambe cedere sotto di me.

Mio padre, senza compassione, mi guardò negli occhi e mi ordinò di prendere un profondo respiro e, senza chiudere gli occhi, assestare un colpo vigoroso sulla fronte dell’animale. Mi disse che quell’animale non avrebbe avuto pietà per me e che, se fosse stato libero, sarebbe saltato e con un colpo solo mi avrebbe squarciato la gola. Le sue parole mi trafissero, aumentando il peso della responsabilità e della paura.

L’animale, quasi percependo la nostra conversazione, fissava me negli occhi con aria di sfida, come per dire: “Sei debole, non sarai mai in grado di colpirmi”. I suoi occhi brillavano di una luce feroce, e ogni movimento del suo corpo maculato sembrava una sfida diretta alla mia capacità di superare quel momento.

Presi un respiro profondo, cercando di calmare il tumulto dentro di me. Il bastone era pesante nelle mie mani tremanti. Guardai lo spazio tra le orecchie dell’animale, cercando di focalizzarmi su quel punto. Il mio cuore martellava nel petto, e ogni fibra del mio essere sembrava ribellarsi a ciò che stavo per fare.

Con tutta la forza che avevo, assestai un colpo sulla testa dell’animale. Il bastone colpì con un suono sordo, e l’animale emise un urlo straziante prima di cadere. Il suono del colpo e il grido dell’animale mi rimbombarono nelle orecchie, lasciandomi paralizzato per un istante.

Guardai mio padre, sperando in un cenno di approvazione o di sollievo. Lui mi guardò con uno sguardo impassibile, ma nei suoi occhi vidi un barlume di soddisfazione. Avevo superato una prova difficile, ma il peso di quell’esperienza rimase con me, segnandomi profondamente.

L’animale cadde a terra con un tonfo sordo, iniziando immediatamente a contorcersi in preda a convulsioni violente. Ogni muscolo del suo corpo sembrava ribellarsi, e le sue zampe si agitavano freneticamente. Era come se stesse avendo una crisi epilettica, con spasmi incontrollabili che lo scuotevano da capo a piedi.

Ogni secondo sembrava eterno. Rimasi lì, paralizzato, osservando il suo corpo muoversi in maniera caotica, quasi innaturale. Le convulsioni continuavano, implacabili, e il suo respiro affannoso era l’unico suono che rompeva il silenzio inquietante della foresta. Sentivo il battito del mio cuore nelle orecchie, un ritmo martellante che risuonava con la stessa intensità delle convulsioni dell’animale.

Dopo dieci minuti che sembrarono interminabili, la bestia tentò di rialzarsi. I suoi tentativi erano disperati, ma infruttuosi. Fece un lamento straziante, un suono che mi penetrò l’anima, prima di tirare fuori la lingua e restare esanime. Il suo corpo si rilassò infine, privo di vita.

“Con le iene non si deve avere pietà,” disse mio padre con voce fredda e distaccata, rompendo il silenzio. Quelle parole mi colpirono come un’altra bastonata. Non riuscivo a rispondere; le parole erano imprigionate nella mia gola, soffocate dalla scena a cui avevo appena assistito.

Tutta quella giornata rimasi in silenzio, incapace di parlare. Ogni volta che cercavo di raccontare ciò che era successo, la scena si ripresentava vivida nella mia mente: l’animale a terra, le convulsioni, il lamento finale. Tremavo come una foglia, la paura e il senso di colpa mi assalivano senza pietà. Mi sembrava di sentire ancora il suono delle convulsioni, di vedere gli occhi dell’animale mentre cercava di lottare per la vita.

Quell’esperienza mi segnò profondamente, lasciandomi con un senso di disagio che non riuscivo a scrollarmi di dosso. L’inflessibilità di mio padre, la crudezza della situazione, la realtà brutale della vita nella foresta: tutto si mescolava in un turbinio di emozioni che mi perseguitavano, facendo tremare il mio corpo ogni volta che quei ricordi riaffioravano.

L’immagine dell’animale morente continuava a perseguitarmi, e mi chiedevo se avrei potuto agire diversamente. Ma nel contesto del villaggio quel dubbio interiore doveva essere messo da parte. La percezione di forza e coraggio era tutto, e io avevo dimostrato di possederli.

Omar Giama

(2- prosegue…)