Al convegno Mi ha mandato a te il Signore… “Accompagnati accompagniamo”, svoltosi il 9 novembre nell’aula magna del Seminario di Faenza, voci ed esperienze diverse si sono alternate per riflettere sull’importanza di sostenere i giovani nella ricerca spirituale e vocazionale. L’incontro, promosso dalla Consulta Pastorale Vocazionale e Pastorale Giovanile dell’Emilia-Romagna, ha dato spazio a diverse testimonianze, arricchendo di prospettive il tema dell’accompagnamento spirituale. La giornata è stata aperta dalla preghiera presieduta dal vescovo di Faenza-Modigliana, monsignor Toso. A seguire, sono state ascoltate le testimonianze di accompagnamento in vari ambiti: la scuola, le esperienze comunitarie e il seminario. E tramite un video, sono state raccontate le buone pratiche di proposte di vita comunitaria per i giovani da tutta la regione.
“Camminiamo insieme”: la sfida del prof Umberto Pasqui
Umberto Pasqui, insegnante di religione presso l’Itis di Forlì, ha messo in luce la complessità di rapportarsi ai giovani in un clima che definisce “deserto religioso e antropologico”. “Prof, non ci farà mica riflettere? Non ci parlerà mica di religione?”, si sente chiedere frequentemente dai suoi studenti, a testimonianza di un certo disagio nell’affrontare temi spirituali in aula. Di fronte a questa resistenza, Pasqui è convinto che l’accompagnamento debba procedere per gradi, conquistando la fiducia dei ragazzi e offrendo una presenza rassicurante dalla quale poi si possa costruire una relazione autentica. Proponendo loro poi uno sguardo controcorrente con cui leggere la realtà: il messaggio evangelico.
La sua testimonianza evidenzia quanto sia fondamentale entrare in dialogo con i ragazzi, cogliendo i loro bisogni interiori, e restituendo speranza e senso di fiducia, anche in un ambiente come la scuola, a volte vissuto con un clima negativo. Per lui, insegnare religione non è solo una missione educativa, ma un percorso di crescita personale: “Anche noi adulti siamo in cammino, e questo camminare insieme è già di per sé una forte testimonianza.”
Martina Tarlazzi e l’esperienza della Fraternità giovani di Faenza
Martina Tarlazzi, oggi pedagogista e giovane mamma, ha raccontato della sua esperienza, circa 7 anni fa, all’interno della Fraternità giovani “Sandra Sabattini” di Faenza e ha offerto un’ulteriore prospettiva. Racconta di aver vissuto fino ai 24 anni in una dimensione individualista, centrata su ruoli e aspettative che si era costruita, fino a quando un incontro inaspettato le ha fatto sentire il bisogno di “sete di fraternità”. Così è nata la decisione di avvicinarsi alla Fraternità giovani, un’esperienza che l’ha profondamente trasformata.
Nel suo percorso di un anno all’interno della Fraternità, ha scoperto la bellezza di una comunità in cui non ci sono regole imposte, ma condivise e continuamente ridefinite con il dialogo sulla base dell’accoglienza. Questo cammino, come racconta, le ha permesso di spostare il suo sguardo dall’individuale al collettivo e l’ha portata a vedere l’educazione come un processo di accompagnamento, piuttosto che di imposizione o. Per lei, questo approccio rappresenta oggi una risorsa fondamentale anche come educatrice presso il centro pedagogico di Bagnacavallo, dove promuove “l’educare in prossimità”, particolarmente prezioso per le famiglie.
Don Paolo Crotti: la vocazione come memoria della propria storia
Don Paolo Crotti, rettore del Seminario di Reggio Emilia, ha offerto una riflessione sulla vocazione come memoria e valorizzazione della propria storia personale, con le sue ferite e i suoi doni. La vera vocazione, secondo Don Crotti, emerge dalla capacità di far memoria e riconoscere i segni lasciati dalla vita. La proposta di Don Crotti è di partire sempre dal vissuto, dai piccoli gesti e dai quotidiani. Ogni relazione di accompagnamento, per essere autentica, deve riconoscere le proprie fragilità, non nasconderle, e trasformare le difficoltà in occasioni di crescita. È solo accettando le proprie debolezze che, secondo lui, si può instaurare un’autentica relazione d’aiuto e accompagnare gli altri nel proprio percorso di fede.
Padre Roberto Del Riccio e il valore della debolezza
L’intervento conclusivo della mattinata, di padre Roberto Del Riccio, a cui è stato dedicato ampio spazio, è stato un richiamo all’importanza di riconoscere e integrare la propria e altrui fragilità. Del Riccio ha ripercorso il momento cruciale della sua vita in cui, da bambino, ha scoperto l’importanza di essere compreso. “Sognavo di fare il maestro elementare, ma ho capito che potevo seguire la stessa vocazione senza necessariamente fare le stesse cose del mio maestro,” racconta. La sua riflessione ha quindi spaziato su un concetto centrale: la debolezza come valore, parte integrante dell’antropologia cristiana, che va accettata e vissuta come parte essenziale dell’esperienza umana.
Viviamo in una società che tende a nascondere le fragilità, spesso interpretandole come debolezze da correggere. Ma per padre Del Riccio, la debolezza non è qualcosa di cui vergognarsi o da “superare” con la grazia divina, ma piuttosto una condizione che ci accomuna, educatori ed educandi, in un terreno di comune vulnerabilità. Egli evidenzia come accettare la debolezza sia l’unico modo per vivere autenticamente la nostra dipendenza dall’amore di Dio e degli altri: solo accettando i propri limiti è possibile realizzare relazioni di accompagnamento vero.
Un punto di particolare interesse è l’analisi di Del Riccio sulla frustrazione: “Siamo tutti esposti al fallimento, al rischio di non ricevere l’amore che desideriamo,” afferma. Ci si è poi riferiti alla condizione umana illustrata dalla Genesi, con la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre e alla loro vergogna di “essere nudi”, ossia loro stessi, come Dio li aveva creati. Una “vergogna” esistenziale che si manifesta nel timore di Dio e degli altri. Questo rifiuto della debolezza è ciò che spesso genera le tensioni e le disillusioni nelle relazioni d’accompagnamento.
L’accompagnatore, nel percorso indicato da padre Del Riccio, deve accettare di morire a sé stesso ogni volta che accoglie con amore e pazienza la rabbia e la delusione degli altri, anche quando queste si dirigono proprio verso di lui. “Dobbiamo essere pronti a lasciare che l’altro sia il protagonista, lasciandogli spazio per essere chi è, anche se questo significa che ci deluderà o che prenderà strade diverse da quelle che avevamo immaginato per lui,” spiega Del Riccio. È solo accettando di lasciarsi “rompere” dall’altro, in un certo senso, che il vero accompagnamento può realizzarsi.
Il valore della verifica: l’accompagnamento come crescita reciproca
Accompagnatori… che hanno sempre bisogno di essere accompagnati. Padre Del Riccio sottolinea inoltre l’importanza, per chi ha ruolo di accompagnare altre persone o comunità, di avere una figura di riferimento con cui confrontarsi per verificare il proprio percorso d’accompagnamento, poiché la formazione non è mai un processo concluso. La presenza di un “coach” spirituale o di un supervisore, per lui, è essenziale per mantenere una prospettiva costruttiva, aiutando chi accompagna a non cadere nella trappola dell’ego o del ruolo, ma a restare centrato sulla relazione autentica con chi accompagna.
Il convegno si è concluso con un messaggio forte: l’accompagnamento spirituale è un cammino di umiltà e di crescita reciproca, in cui i giovani possono trovare una guida nella fragilità condivisa e nel riconoscimento del bisogno di essere amati e accettati per quello che sono.
Samuele Marchi