Negli ultimi trent’anni, il rapporto tra la Chiesa italiana e le organizzazioni criminali – mafia, ‘ndrangheta e camorra – ha subito una trasformazione profonda, passando a un impegno sempre più netto e deciso. Se in precedenza non sono mancate zone d’ombra, oggi la Chiesa, sotto la guida di papa Francesco, ha intrapreso una lotta aperta e senza compromessi contro le mafie. Negli anni ’90, il coraggio profetico di sacerdoti come don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia a Palermo nel 1993, e don Giuseppe Diana, assassinato dalla camorra nel 1994, ha segnato un punto di svolta. La Chiesa è diventata via via più consapevole del proprio ruolo nella lotta alla criminalità organizzata, percependo come inaccettabile qualsiasi ambiguità o connivenza. Questi temi complessi, su cui c’è ancora tanto da approfondire, sono al centro della tesi di laurea magistrale della brisighellese Susanna Rondinini. Laureata in Giurisprudenza all’università di Bologna (campus di Ravenna) ha presentato un elaborato dal titolo “La Chiesa cattolica e il fenomeno mafioso: riflessione normativa”, che rappresenta una sintesi storica e legislativa con molti spunti di riflessione.

“Negli ultimi 30 anni grazie a sacerdoti come don Peppe Diana sono finite ambiguità, ma la Chiesa deve ora fare un cambio di passo sulla scomunica”

Susanna, come nasce questa tesi?

Mi ha sempre affascinato il tema del contrasto alla criminalità organizzata. Sono scout e alcuni anni fa ho partecipato a un campo di servizio a Rosarno che è stato davvero arricchente per comprendere come si strutturano i fenomeni mafiosi al Sud, ma anche nel Nord Italia. Anni dopo sono stata a un altro campo di servizio a Sessa Aurunca, in un bene confiscato alla camorra. E lì ci è stato fatto capire come conoscere e parlare di questi temi sia importantissimo per contrastare la criminalità organizzata. E da lì nasce la voglia di indagare e, nel mio piccolo, cercare di promuovere la giustizia.

Perché hai indagato i rapporti con la Chiesa?

C’erano alcune dinamiche che non mi tornavano e che ritenevo assurde. In particolare, volevo capire come la mafia sia riuscita a “prendere” certi elementi della liturgia per i propri interessi. O il perché si utilizzassero delle immagine sacre nei propri rituali di affiliazione. E al tempo stesso, non capivo le dinamiche per le quali la Chiesa, di fronte ai fenomeni mafiosi, sia stata per lungo tempo in silenzio.

Come hai condotto le tue ricerche?

Oltre a un’ampia bibliografia fornita dal mio professore Antonello De Oto, in particolare mi ha aiutato il Centro Documentazione don Tonino Bello a Faenza. Nella parte centrale della tesi ho evidenziato sia casi di preti collusi sia di preti coraggiosi. C’è un paragrafo dedicato alla “quarta mafia” e a don Tonino Bello, un prete poi vescovo che nelle sue omelie si è esposto contro la criminalità organizzata. Il Centro don Tonino Bello mi ha aiutato nel ritrovare i testi delle sue omelie, così come di altri sacerdoti, come don Puglisi e don Diana.

Grazie anche al loro esempio, negli anni ’90 c’è stata una svolta.

Sì, la Chiesa ha iniziato a prendere posizione. Celebre è il discorso di papa Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993 e poi con il magistero di Benedetto XVI e successivamente, con la scomunica proclamata da papa Francesco nel 2014 nella spianata di Sibari. Nel 2021 Francesco ha istituito una commissione per portare avanti il tema della scomunica in modo formale, ma questa non è ancora stata stabilita. Questa iniziativa, nata con l’intento di avere una prospettiva universale, sembra però essersi arrestata.

Quali sono i rituali liturgici di cui si è appropriata la mafia?

Nella tesi ci sono vari esempi. La mafia attinge dal battesimo per i suoi rituali di affiliazione: vengono bruciate immagini sacre e istituzionalizzano questo rito per dare formalità alla loro struttura. La processione cittadina è un altro momento utilizzato per legittimare il loro potere, finanziandola e gestendola in modo da rafforzare l’idea che il boss sia una figura benvoluta dalla comunità. Luoghi di culto come il santuario della Madonna della Montagna a Polsi sono stati poi veri e propri luoghi di incontro per la ’ndrangheta. O ancora, i boss nei pizzini per parlare con i loro sodali utilizzavano spesso parole del Vangelo.

Perché le mafie fanno questo?

Il controllo sociale. Tutto questo ha ben poco a che fare, in realtà, con la sfera religiosa. Sono invece forme di controllo del territorio, fondamentale a queste strutture per reggersi in piedi. Il messaggio del Vangelo è quanto di più lontano dalla legittimazione della criminalità organizzata, ma la mafia ha creato una concezione di Dio a sua immagine e somiglianza. I boss si percepiscono come esecutori della giustizia divina, con un forte senso tribale che esalta il legame di sangue: chi non è della famiglia di sangue è uno straniero, e ciò giustifica anche l’assenza di senso di colpa nell’uccidere.

Se in passato c’è stata ambiguità, oggi per fortuna le cose sono cambiate.

Sì, dopo un lungo silenzio il territorio ha capito, grazie a figure come don Peppe Diana, che insieme si può contrastare questo potere violento e prevaricatore. Sono nate molte associazioni che promuovono l’amore per il territorio e condannano le azioni mafiose. Benedetto XVI a Palermo disse che dobbiamo essere alberi che resistono nel fiume del male. La mafia cerca di attirare con illusioni di benessere, ma si finisce in realtà intrappolati in un circolo di violenza. L’unione è fondamentale per resistere a queste dinamiche. E anche la Chiesa deve fare la sua parte, specie nelle periferie. Ma ci vogliono linee guida, anche a livello normativo, di modo che i preti possano andare nella stessa direzione e non sentirsi soli. Per questo sarebbe importante, anche a livello legislativo, riprendere i lavori della Commissione scomunica mafie che aveva voluto Francesco.

Samuele Marchi