Cosa resta della notte in cui Faenza ha cambiato volto lo dicono i silenzi di chi non riesce a raccontare. Il termine esatto è disturbo da stress post traumatico, quello che ognuno dovrebbe aggiungere al suo vocabolario è trauma collettivo. Chi non ha perso casa e ha una vita uguale a quella di prima, non è vero che non può capire, ma certamente deve fare uno sforzo. Tra i quartieri più feriti di Faenza c’è il Borgo. Tantissimi sono i bambini e i ragazzi colpiti insieme alle loro famiglie. Ci ha descritto la situazione la dirigente dell’Istituto Comprensivo Carchidio-Strocchi Maria Saragoni.
Ancora tante difficoltà
«I nostri edifici scolastici non sono stati colpiti, fortunatamente, ma le famiglie ancora in difficoltà sono tante. Le situazioni sono le più disparate e c’è da tener conto che al di là di chi ha vissuto direttamente l’alluvione c’è il trauma collettivo che ha colpito tante famiglie. È qualcosa che portiamo dentro. Come scuola abbiamo cercato di intervenire con i fondi ricevuti per un aiuto concreto alle famiglie in termini di acquisto di libri e kit di materiali, ma anche offrendo un supporto per usufruire di progetti a pagamento, da laboratori a gite. Abbiamo potenziato lo spazio di ascolto per i ragazzi della secondaria e per le loro famiglie». Questi alcuni degli interventi che le scuole faentine hanno messo in campo, ma poi c’è il problema di fondo: il trauma da elaborare ogni giorno. «L’aspetto molto importante è quello quotidiano: dare spazio alla parola e al raccontare mettendo in campo le proprie esperienze per elaborarle, cosa che abbiamo cercato di fare già a maggio con un lavoro di racconti dei bambini dell’Infanzia con Save the Children».
Per i più grandi raccontare è difficile
Se l’ascolto è lo strumento essenziale è vero che la parola non è sempre semplice da usare: «I piccoli hanno parlato subito e molto. I ragazzi della secondaria meno, come se si vergognassero di dire, di raccontare. La capacità di rielaborare va stimolata. Per gli adolescenti il fatto di aver perso oggetti significa aver perso qualcosa che è legato alla propria identità – continua la preside – Spesso abbiamo scoperto situazioni anche in modo accidentale: un ragazzo con la passione del disegno in terza media, alla richiesta di portare un oggetto che lo rappresentasse all’esame, ha portato un pastello, l’unico rimasto. Anche i docenti sono stati colpiti e a maggio c’è stata grande solidarietà tra insegnanti. Siamo però tutti ripartiti con uno spirito propositivo, anche se le difficoltà sono ancora tante». Una ripartenza complessa che rievoca un altro periodo difficile i cui effetti non sono affatto scomparsi: l’isolamento del periodo di pandemia. «La pandemia ci ha logorato per tanto tempo, ora c’è stata la solidarietà che il covid aveva impedito. Ha lasciato strascichi che si vedono ancora anche se in forma più sottile: il tempo che si è sospeso ha lasciato il segno. Mi sembra che gli effetti di più lunga durata siano nei ragazzi più grandi, in chi ha vissuto la pandemia in età adolescenziale e oggi è alle scuole superiori. Credo però che bambini e ragazzi abbiano più risorse degli altri, ma resta fondamentale anche portare alla riflessione gli adulti sul territorio, con misure di contrasto all’abbandono ma anche mettendo in evidenza quali sono le condizioni di benessere ancor prima che di prevenzione». Dunque le cose non tornano come prima, ma vanno ricostruite perché siano meglio di com’erano prima e non resti indietro nessuno.
Letizia Di Deco