Di seguito riportiamo l’intervento integrale del dottor Marco Mazzotti Ricerche sulla spiritualità femminile a Faenza tra i secoli XIV e XVI (Testo letto al convegno Movimenti religiosi femminili pretridentini nel territorio di Ravennatensia (secoli XIV-XVI), il 30 settembre 2023 presso il Seminario di Faenza nell’ambito del XXXVII convegno di “Ravennatensia”).

Il presente convegno costituisce lo stimolo per l’avvio di una ricerca sulla vita spirituale femminile faentina nel periodo compreso fra il tardo Medioevo e la prima età Moderna che non risulta ancora indagata in modo sistematico.

       Ciò non implica che l’argomento non sia stato precedentemente affrontato, come stanno a dimostrare gli innumerevoli studi dedicati a Umiltà Negusanti ed a Margherita Molli e Gentile Giusti, che, fra l’altro, si collocano pressoché all’inizio ed alla fine dell’arco temporale considerato e che, proprio in quanto conosciutissime ed oggetto di trattazione anche in questa sede, non saranno da me ulteriormente riprese.

I temi della spiritualità faentina medievale furono oggetto del convegno del 1995 citato ieri dalla professoressa Bartolomei Romagnoli San Nevolone e Santa Umiltà a Faenza nel XIII secolo, mentre dal 2020 si dispone del volume di Ruggero Benericetti Note storiche sulle chiese dei monasteri femminili della città di Faenza durante l’età medioevale e moderna. Riguardo a S. Umiltà, ne approfitto per segnalare che dal 31 ottobre al marzo 2024 sarà esposto a Faenza il celebre polittico di Pietro Lorenzetti della Galleria degli Uffizi, un’opera che bene sintetizza la grandezza e la fama a lei riconosciuta già dai contemporanei.

       Le fonti relative al nostro argomento, per quanto più numerose rispetto al periodo precedente, risultano tuttavia ancora scarse al fine di delineare un quadro d’insieme, stante la compromissione degli archivi monastici e Diocesano.

Dal punto di vista storico si tratta di una fase temporale di crescita della città e del suo territorio, passando dal periodo comunale podestarile al disimpegno imperiale, al conflitto fra poteri legatizi e locali, alla signoria vicariale, fino alla piena sovranità pontificia. E quale prima valutazione, ma anche la più ovvia, pare notare che le vicende della spiritualità femminile faentina si rapportino in modalità fisiologica con le dinamiche comuni ad altri centri romagnoli.

A Faenza non esistevano monasteri femminili di antica fondazione, come invece a Ravenna, che disponevano di significativi patrimoni nel territorio faentino. In una carta capitolare del 27 agosto 1061 «Remengarda umilis abbatissa» detta Masaria, dona terreni alla cattedrale riservandosene l’usufrutto, ma nell’atto non si accenna al suo stato monacale bensì agli eredi (forse in mera applicazione del formulario notarile) tanto che viene da interrogarsi sul senso da attribuire alla qualifica abbaziale.

Ai primi decenni del XIII secolo risalgono le prime attestazioni di monasteri femminili nella città di Faenza o, meglio, nell’area extra-urbana, conformemente alle prassi di posizionamento urbanistico di questi edifici. In una bolla di Onorio III del 19 ottobre 1219 è ricordato per la prima volta il priorato di Santa Perpetua della Congregazione dei Canonici di San Marco di Mantova, nell’area dell’attuale cimitero dell’Osservanza. Non si conosce molto della fondazione di questa comunità, che nell’ultimo decennio del XIII secolo appare turbato da discordie che avevano portato all’intervento vescovile e, per quanto interessa a noi, si conferma abitata anche da «sorores». Una di esse, Bartolomea de Francoli era fuggita, scomunicata e riabilitata, assegnandole una vita di preghiera nel cenobio avellanita di Santa Maria Foris Portam.

Nel 1223 è la volta del monastero di Santa Chiara (sintetizzo sulla denominazione), subito dopo seguito da quello di San Maglorio (camaldolese, misto ma dalla fine del secolo solo femminile), di Santa Caterina (domenicane), di S. Umiltà (vallombrosane), di San Bernardo (cistercensi), delle suore Frisie dei Santi Luca e Cecilia (forse dal nome della fondatrice suor Frisia), e delle Santucce dei Santi Gervasio e Protasio (benedettine della famiglia di Santuccia da Gubbio). Per l’elenco dettagliato degli insediamenti si rimanda al testo scritto, ma qui preme soprattutto proporre l’ipotesi che la lievitazione dell’esperienza monastica femminile nel corso del XIII secolo si connoti per una sostanziale coesistenza delle quattro (o quanto meno delle prime tre) soluzioni di vita penitenziale che la Bartolomei Romagnoli avanzò nel convegno del 1995 e cioè, cito, «monachesimo di tradizione regolare benedettina, monachesimo clariano-damianita, eremitismo urbano o suburbano, vita bizzocale di piccoli nuclei di donne semi-religiose». Del resto, la figura di Umiltà e del beato Nevolone – campione del penitenzialismo maschile, che la tradizione vuole sia oblato camaldolese che terziario francescano e che avrebbe avuto una moglie che sarebbe anche andata con lui in un pellegrinaggio a Compostella (anche questo è un parallelismo con Umiltà) – sono paradigmatiche di tali dinamiche e nello stesso periodo si consolida l’influenza dell’elemento romualdino-damianeo nel monachesimo faentino, soprattutto maschile (nel XVIII secolo si arriverà a due monasteri maschili, due femminili ed una casa di oblate solo nella città, senza contare la diocesi). Ricordo anche la bolla Significatum est del 1221, mediante la quale Onorio III ordina al vescovo di Rimini di proteggere i Penitenti di Faenza dalle vessazioni dei magistrati. E qui, si apre tutto il discorso del Francescanesimo, di cui ieri si sono citati gli studi del Lanzoni, che andrebbero raccordati con quelli più recenti.

Le case fondate nel corso del XIII secolo – peraltro un periodo di particolare espansione del comune faentino come comprova il lungo assedio di Federico II nel 1240 – costituiscono l’ossatura dell’elemento monastico femminile per i secoli successivi, ed anche se alcuni scomparvero ancor prima della Riforma ed in età napoleonica, quelli di Santa Chiara, Santa Umiltà e San Maglorio sono tuttora aperti, seppure con diverse prospettive.

Conosciamo poco dei monasteri faentini prima del Concilio di Trento ed ancor meno sappiamo delle singole monache (le liste abbaziali dei tre appena citati sono pubblicate dal Lucchesi nella voce «Faenza» nel Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastiques). Una fonte cha aiuta a conoscerne alcune è, paradossalmente, fra quelle maggiormente disconosciute dagli studiosi, le Vite de’ santi, beati, venerabili e servi di Dio della città di Faenza e poi della Diocesi composte da Romualdo Maria Magnani nel 1741 e 1742. Si tratta di descrizioni biografiche talmente intrise di favolismo agiografico e di stucchevole narrativa (bastava un nulla affinché il nostro sacerdote proclamasse santi o beati) che si tende a non prenderle in alcuna considerazione. Tuttavia, il Magnani ebbe modo di consultare opere a stampa e manoscritti oggi perduti e che sistematicamente cita. Da un rapido esame è possibile evincere alcune figure, che occorrerà approfondire con cautela. Diversi sarebbero gli esempi da proporre, (solo alcuni esempi per “provocazione” come suor Filippa, che sarebbe stata inviata da Santa Chiara per fondare il monastero faentino; oppure suor Giustina, che si fece monaca a Faenza ma poi volle raggiungere Santa Caterina al Corpus Domini a Bologna; suor Francesca Tonduzzi, che convertì e fece battezzare un ebreo; Orsola Lozzani, una delle fondatrici del Monastero di Santa Cecilia con religiose provenienti dal bolognese di S. Agnese; suor Anna Santa Mazzolani, in rapporto con l’arcivescovo di Bologna Alfonso Paleotti; suor Raffaella, domenicana a Firenze che fu maestra di Santa Caterina de Ricci).

       La figura della matrona Giovanna, a cui la tradizione vuole che apparisse la Madonna venerata sotto il titolo delle Grazie, induce a riflettere sulle donne laiche che, come tali, sono meno ricordate nelle fonti. Al riguardo, segnalo un codice del XV secolo, in gran parte musicato, contenente le liturgie di suffragio dei benefattori del Collegio dei Parroci Urbani di Faenza, ma pure i loro elenchi, seppure cronologicamente più tardi. Si tratta di svariate centinaia di nominativi di persone che il Collegio ricordava anche a distanza di secoli e per circa la metà si tratta di donne. Donne di cui conosciamo solo i nomi, ma che possono essere potenziali indizi di ricerca, anche in funzione di eventuali committenze artistiche. Leggendo il loro nome pare quasi di conoscerle meglio, di immaginarsele attive nella Faenza di cinque secoli addietro con la loro esperienza di fede.

       Una donna vissuta nel XV secolo e ben documentata è Gentile Malatesti, moglie di Gian Galeazzo Manfredi che, alla sua morte nel 1417 assunse la reggenza della signoria cittadina e morì poco dopo il 1455. Non si conosce la data esatta del matrimonio, che servirebbe per meglio inquadrare una sua richiesta, riportata dal Tonini, di avere facoltà di potere entrare e vivere insieme ad altre 14 nobildonne in un monastero a scelta delle città di Rimini, Pesaro, Fano, Cesena (città malatestiane) e di Faenza e di uscirne a piacimento. Un inventario degli arredi della cattedrale di Faenza del 1444-1448 elenca un missale parvum a cui una mano successiva ha aggiunto trovarsi presso di lei, fatto che presuppone una pratica di devozione individuale. Ancora, nel 1450 si reca in pellegrinaggio giubilare a Roma insieme alla figlia Ginevra. Elementi che, per quanto Gentile sia stata anche energica donna di governo, inducono ad associarla alle figure di “spiritualità signorile”, di cui si dispone di numerosi esempi. Non sappiamo se appartenesse alla famiglia Manfredi quella Clarice, presente nei rogiti del monastero di Santa Lucia, che, insieme ad una consorella, il 22 maggio 1500 chiede al signore Astorgio III la concessione di una chiara esenzione dai dazi e dalle gabelle, di cui avevano beneficiato in passato. La protezione dei Manfredi ai conventi e monasteri è accertata soprattutto per quelli maschili, ma decisamente meno per i femminili, che, al contrario è appurata, come ieri ha segnalato Enrico Fusaroli Casadei per le Umiliate della SS. Trinità, beneficate da Giovanna Vestri di Cunio, vedova di Astorgio II, la stessa che destinò somme anche per la realizzazione della celebre arca di San Savino.

       Questo monastero di Umiliate è esemplare delle dinamiche che connotano quella sorta di precarietà del monachesimo femminile a cui ieri ha accennato la professoressa Bartolomei Romagnoli, alludendo a fondazioni di non lunga durata. Le Umiliate officiarono il monastero della SS. Trinità (da non confondere con uno di pressoché simile denominazione dei monaci Celestini) per circa 50 anni, lo stesso che precedentemente era stato sede di Terziarie Regolari Francescane. Oltre alle Francescane esistevano le Domenicane, mentre quasi nulla si conosce di quelle Servite. La notizia è desunta dal Magnani, laddove loda le virtù di Francesca Camilli, che vestì l’abito servita nell’«ospizio delle Terzine Servite ch’era in Faenza nel luogo ove è la Confraternita dell’Incoronata» e che avrebbe donato ai religiosi patrimonio e suppellettili, fra cui un calice prezioso con il suo nome. Dopo le Umiliate, nella SS. Trinità fu aperto nel 1506 un secondo monastero camaldolese femminile, mediante innesto di monache cistercensi provenienti da quello di Santa Lucia, che ebbe vita fino alle soppressioni napoleoniche.

       Il rinnovato monastero della Trinità è da ascrivere alla serie di fondazioni in età immediatamente pretridentina, che comprende anche Santa Lucia (ristrutturazione del precedente di San Bernardo, ma sempre cistercense), Santa Cecilia (altro monastero domenicano), San Paolo detto Delle Convertite (in quanto prima di assumere la regola delle Clarisse era ricovero per donne di “mala fama”), ed una serie di fondazioni domenicane nella Val D’Amone. (su questo ci sarebbe da indagare meglio).

Uno Stato delle anime della città di Faenza e suo Borgo, del 1738 (quindi ampiamente fuori dal nostro range cronologico) su una popolazione di 7032 donne le monache degli otto monasteri urbani con le converse erano 399 e le loro educande 39, escludendo le terziarie ed i “Conservatori”: quindi, circa il 5,5% del totale. Fornisco questi dati perché mi è capitato sottomano questo censimento, ma non è detto che sia accettabile per i secoli che interessano a noi, per via delle frequenti variazioni del numero delle claustrali.

       Prima di concludere, un accenno al rapporto fra donne e movimenti ereticali. Ieri si è accennato alla figura di Mirabella da Faenza, ma è risaputo come la diffusione delle dottrine evangeliche favorisse una maggiore partecipazione femminile. Faenza nel corso del XVI secolo divenne un caso eccezionale per via delle dimensioni delle infiltrazioni luterane, tanto che divenne sede dell’Inquisizione di Romagna, con sede nel convento di San Domenico (stando al censimento del 1738, erano 65 fra religiosi e conversi). L’archivio inquisitoriale è andato disperso (un verbale di ricognizione redatto al momento della soppressione lo descrive in diversi armari e consistente in diverse centinaia di registri e molte carte) e con esso verosimilmente numerose notizie sulle donne. A titolo esemplificativo cito il caso più celebre ed estremo, quello di Camilla Caccianemici, della stessa famiglia del marito di Santa Umiltà e vedova del signore Camillo Regnoli, giustiziata il 23 agosto 1569 sulla pubblica piazza, della cui esecuzione sono stati tramandati particolari raccapriccianti.

Ecco, come avete visto questi spunti di ricerca sono un po’ confusi anche perché di “carne al fuoco” ce n’è tanta. Un approccio di indagine onde riconoscere un’eventuale “civiltà monastica faentina”.

Marco Mazzotti