Le finestre restano aperte, gli scuroni spalancati. Dall’interno delle case non proviene però alcun tipo di suono. Da tre mesi regnano solo silenzio, umidità e abbandono. I residenti? I più sono ancora ospitati da parenti e amici, in stanze di fortuna improvvisate camere da letto. Altri, senza reti sociali, hanno trovato posto in parrocchie o in alberghi, come all’hotel Il Cavallino (in quest’ultimo sono ancora ospitate 145 persone). Una “soluzione provvisoria” che dura ormai da più di cento giorni e non vede date di scadenza. Alcuni tornano ogni tanto in via Lapi, via Carboni, via Bubani. Non per riarredare l’appartamento: salvo pochi casi, è presto e i muri sono ancora troppo umidi. Tornano per curare i fiori e le piante rimaste negli appartamenti, una sorta di presidio della presenza umana. I colori vivaci di un fiore rappresentano un piccolo segnale di speranza a cui rimanere aggrappati per non vedere abbandonato il proprio quartiere al suo destino. A tre mesi di distanza dall’alluvione, in quella che è una delle zone più colpite di Faenza, ci si aggrappa a questo, ai fiori e a poco altro: l’edicola che riapre, altre attività che pian piano riprendono. Ma la situazione delle abitazioni appare critica e senza sbocchi.

Un futuro da conquistare

Solo chi viveva nei piani più alti dei condomini, dal terzo in su, è potuto tornare a casa. Gli altri, la maggior parte, la notte del 16 maggio hanno visto la propria abitazione sommersa fino al secondo piano. Hanno perso tutti gli oggetti e ricordi della propria vita. E se la perdita del passato è stata, in un qualche modo, accettata, il futuro è tutto da conquistare. Insicurezza legata a rimborsi, preventivi per risistemare casa a sei cifre, la paura legata al fiume e alla sicurezza degli argini; il senso di vuoto è legato non solo a quei muri umidi, ma anche al silenzio delle istituzioni. «In questi mesi la situazione si è fatta sempre più critica – commenta Gabriella Reggi, residente del quartiere di via Lapi e attualmente ospite da parenti – e non si vede lo spiraglio di soluzioni. Non possiamo tornare a casa: fare investimenti per rimetterla a posto ora è rischioso, ma trovare abitazioni alternative è altrettanto difficile e senza sbocchi». Dopo lo shock iniziale dell’alluvione, ci si è rimboccati le maniche. Ma le risposte sui lavori da fare non sono positive. «Abbiamo chiamato tecnici, muratori, elettricisti per mettere a punto un preventivo – racconta -. Il problema? Arrivano ad almeno 100mila euro e senza contare le spese per i nuovi arredamenti. Anche confrontandomi con altri residenti spuntano fuori cifre simili o più alte. Avrei tanta voglia di tornare nella mia casa, ma di fronte a queste cifre sono costretta a fare un passo indietro. Anche perché l’unica certezza di rimborso finora sono i 5mila euro, che, di fronte a queste cifre, appaiono ridicoli». La burocrazia per le perizie tecniche dei danni e dei lavori non aiuta. «Andrebbe semplificata – dice -. Aggiungo alcune assurdità: il Piano regolatore attuale del Comune ci impone, essendo un’area nei pressi delle mura storiche, di costruire gli infissi in legno. Dopo un’alluvione, non sono proprio il massimo…».

La paura di argini e fognature e l’emergenza abitativa

Anche nel caso si riuscisse a sistemare casa, non sarebbe tutto risolto. La paura per lo stato degli argini del fiume e delle fognature resterebbe. «Il Comune ha fatto il possibile, ma il problema delle fognature in via Lapi c’è sempre stato – ricorda Reggi -, ma mai a questi livelli. In questi anni ci abbiamo, giocoforza, convissuto, nonostante i rimbalzi di responsabilità tra Hera e Amministrazione. Ogni residente si è attrezzato con pompe che potessero risolvere la criticità di acqua che veniva su dalle cantine. Dopo quello che è successo, una convivenza di questo tipo è impossibile. Anche perché, se va via la corrente elettrica, le pompe sono inutilizzabili, e ci ritroveremmo di nuovo tutto allagato». Visto tutto questo, appare più semplice dare un taglio al passato, cercando una nuova sistemazione. Anche questa strada appare però impossibile. Le case di via Lapi sono svalutate e trovare un nuovo appartamento a Faenza, anche solo di fortuna in attesa di poter tornare a casa, è un’impresa. «Il mercato era già bloccato prima dell’alluvione. Molti proprietari, anche a Faenza, hanno paura ad affittare – sottolinea Reggi – dicono perché le leggi non li tutelano. In caso di insolvenze, per loro è impossibile sfrattare. Al tempo stesso deve essere fatta una seria riflessione solidale sul tema abitativo e una verifica, anche da parte dell’Amministrazione, sugli appartamenti sfitti». Proprio per aiutare l’incontro domanda e offerta, la Diocesi e la Caritas negli scorsi mesi si sono fatte carico di raccogliere la disponibilità di immobili, da parte delle persone, per affrontare l’emergenza abitativa. La grande paura, conclude Reggi, è che «in questa situazione di stallo, la zona nel tempo si degradi, cadendo nella desertificazione economica e sociale. Questo era un bel quartiere, ora c’è tanto malessere dovuto alle incertezze sul futuro. Un malessere che in certi casi diventa rabbia. Conosco un residente che, per esempio, non vedendo sbocchi, si è trasferito definitivamente a Forlì. Alla mia età pensavo di trovare nella casa una sicurezza, e questa non c’è più. La gente, da fuori, pensa che la situazione a tre mesi dall’alluvione bene o male sia risolta: non è così».

Samuele Marchi