Domenica 15 gennaio ai Filodrammatici di Faenza, oggi intitolati a Luigi Antonio Mazzoni, c’è stata l’ultima recita di Tri dè int e’ Fôran vëc con un pienone che non vi dico (come già nelle sere precedenti), con un grande entusiasmo da parte del pubblico e una grande soddisfazione pure da parte della Compagnia che fanno pensare a una replica dello spettacolo nella prossima stagione teatrale. Giuliano Bettoli nel tradurre “El curtil de cascinett”, la commedia scritta in milanese da quel suo e nostro grande amico, scrittore, attore e regista che è stato Roberto Zago, è riuscito a ricreare uno spaccato quanto mai reale della vita borghigiana di un tempo arricchendolo con una successione di espressioni dialettali (definirle uniche è dir poco) dove il ritmo e la musicalità sono un tutt’uno con l’originalità, l’immediatezza e la schiettezza delle battute che accompagnano lo svolgersi dell’azione.

Ebbene, su alcune di quelle battute si è accentrata l’attenzione del pubblico suscitando reazioni diverse: da un lato l’applauso divertito di chi il dialetto lo mastica ancora bene, dall’altro una forte curiosità di quelli (in particolare i più giovani, a cui aggiungo anche alcuni attori) che poco ne sanno e vorrebbero poterne cogliere le sfumature. In questi giorni sono andato a rileggermela Tri dè int e’ Fôran vëc e qui di seguito riporto alcune di quelle espressioni che ci fanno riandare a un modo di vivere (la commedia è ambientata alla fine degli anni 30 del Novecento) così diverso da quello di oggi. Mi faccio dai discorsi delle donne del cortile che commentano il matrimonio di Lino e della Teresina e le particolarità del pranzo, con i parenti di lui venuti dal sud, a e’ Butighì ’d Sa’ Mã… l’è stêda una fësta cun du sdêz… Spigõ l’ha mès e’ poz a mol… un caicadur… un sbugliõ ’d roba… i ha zaflê coma dal troi… i ha magnê ch’i s’è svarsé… s’i n’i gli caveva da sota i splucheva ne˜ca al scarãn cun la pavira e tót… . E’ sdaz, il setaccio presente in tutte le cucine era lo strumento usato dalle nostre donne di un tempo ogni volta che c’era bisogno della farina per il pane, per la minestra e quant’altro serviva per preparare il mangiare; il farne poi entrare in azione due (dei setacci) fa capire l’importanza e l’abbondanza presente in quella festa per cui Masimen d’ Spigõ ha messo a mollo il pozzo, cioè ha fatto l’impossibile, per riempire le pance di un branco di affamati che, tuffato il muso nel mangiare, hanno divorato tutto quel che c’era, con il rischio che facessero fuori pure le sedie impagliate cun la pavira, l’erba secca delle nostre paludi. Ci sono poi le battute di Canucèta, il ficcanaso chiacchierone a cui non scappa niente di quel che succede nel cortile de Fôran vëc e che muore dalla voglia di sapere tutto di tutti; lui, nelle tante chiacchiere in cui esprime la sua curiosità e il suo falso moralismo, fa largo uso di particolari e vivaci espressioni attribuendo agli altri quelle che in realtà sono le sue caratteristiche principali: … me a la cnuseva una dóna… una mitragliatrice ‘d ciàcar, un pasarer d’un cuntenuv ch’la pareva la piazèta dagli urtlãn… che brânch d’ciacaroni de Fôran vëc al sona l’adunata cvând al pô taiê dal gabân adòs a un cvicadõ…

E così quel parlare a mitraglia, quel ciarlìo da stormo di passeri, quel vociare nella piazza delle ortolane nei giorni di mercato, quel fare squadra nel dir male di questo o di quello, ricostruiscono, insieme alle battute degli altri personaggi, l’atmosfera che si respirava nel vecchio cortile del Borgo.

La Carõla, ad esempio, impegnata nel difendere la figlia Teresina, ne usa a volontà, anche di piuttosto colorite e, andando perfino a scomodare il regno animale (la salamandra, il chiurlo, l’asino e l’asina), zittisce il marito Masimen e il genero Lino accusandoli di avere poco ingegno e nessuna sensibilità … sta zet tësta ‘d zaramandla, t’è propi e’ sintime˜t d’na brèca… brot ciurlunaz d’un sumar, ta i è propi una zimlê ’d pã cot a caval de col… i scurs che fasè la brèca a l’êsan… . Il dialogo fra la Carõla e Masimen è un continuo di battute ora piccate e piccanti… me e te a n’ave˜ mai scapuzê ta n’araveia miga adës a ruzlêmla… di marid mei ch’n’è cvèl a t’in svol a ptazê (a valanga) … da stóra a i aveva zà butê zo una mëza capa ‘d dént, ma fra queste ne emergono pure tante piene di ricordi e di nostalgia: … a sen acvè cun e’ gôs (il magone) parchè a sen armest da par nõ… a i aveva un fat sparatisum (parossismo) adòs… a seva cumpãgna un ôv fresch prõt da bé… a i aveva i pitare˜ (formicolio doloroso) int al dida e u m’ pizgheva i sangunêz (i geloni) int i pi… E potrei continuare con le particolari espressioni dialettali della Mariucia … a i degh un chilz int e’ cul ch’la durarà na stmâna a caghê dla söla…, d’Pidivëla… un zindrãndul ch’l’à bsôgn ‘d una s-ciarêda fata be˜…, d’Miglio… Ta n’vi che t’stê dret a fôrza ’d ciàcar, fecanês ’d un caziã… e di tutti gli altri personaggi che hanno scandito le varie situazioni emozionando e coinvolgendo gli spettatori a cui è venuto da chiedersi: “Mo e’ nòstar dialet, mo cvânt el bël?”.

Mario Gurioli