Lo si poteva chiamare “salotto culturale e conviviale”, quello a cui ebbi l’onore di essere invitato, anni fa, da persone amiche, in casa del farmacista Federico Zanotti e della sorella Laura, all’ombra della Cattedrale. Regnavano semplicità e cordialità e la distinta personalità di Federico si imponeva per il garbo e la signorilità. Era un piacere ascoltare la sua voce calda e pacata, soffusa di sottile ironia. Quando era ormai infermo, mi recavo a fargli visita e raccoglievo ancora i ricordi di una intensa esistenza. Li conservo per una breve rassegna di alcune figure per lui significative, sacerdoti e laici, soprattutto nel tragico periodo bellico.
Ad altri, più competenti di me, il compito di tratteggiare la poliedrica figura di Zanotti, campione anche di tante attività sportive, conservando sempre la fiamma dell’alpino.

Cominciamo dalla fine. Era la mattina del 27 agosto 1945, ore 5, quando Federico bussò, emozionato, alla porta di casa. Finalmente, dopo le peripezie del viaggio di ritorno dalla prigionia in Germania. Un treno l’aveva portato a Pescantina di Verona, fino al termine dei binari interrotti. Un pezzo di pane offerto da due crocerossine. Poi via Ferrara, Ravenna e Forlì in autostop con mezzi di fortuna. Ha 24 anni, due passati in prigionia, il sottotenente alpino Federico. Wietzendorf, la cittadina della sua deportazione, a 100 km a sud di Amburgo, gli ha permesso di vedere in lontananza il bombardamento della città, che annunciava la liberazione a opera degli anglo-americani. A casa non vuole assolutamente parlare del passato. Fatica a dormire sul materasso, che gli provoca mal di mare, dopo due anni sul pavimento. Aveva tanto sognato l’Italia. Il Monviso, sorgente del Po, era la sua montagna preferita, per la immensa visuale della val padana. Ora porta nel cuore e negli occhi, sopra ogni bruttura, l’immagine di figure esemplari. Don Luigi Pasa, sacerdote salesiano, originario di Agordo, il paese del papa Giovanni Paolo I. Senza essere arrestato, sceglie di mescolarsi ai prigionieri italiani, per non abbandonarli. Attivissimo riesce da Bruxelles a recarsi a Parigi, dove è Nunzio apostolico, Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII, e ambasciatore Giuseppe Saragat, futuro presidente della Repubblica italiana.

E così può arrivare a Roma da papa Pio XII, il quale, commosso, ascolta i drammatici resoconti. Al ritorno dai prigionieri, con vettovaglie e viveri, si vocifera bonariamente «Don Pasa ha fatto piangere il Papa!». Nel campo di detenzione Giovannino Guareschi, che anni dopo inventerà le storie di don Camillo e Peppone, impianta una rudimentale radio per intrattenere i soldati e sollevare il morale. Altra figura, esempio toccante di fede e futuro animatore dell’Azione Cattolica, è Giuseppe Lazzati. Infine un vivo ricordo di Biagio Budellacci, sacerdote di Faenza e parente di famiglia. A Roma, in Vaticano, all’Ufficio per Profughi, si spende in preziosi aiuti fornendo notizie sui dispersi. Anche Giuseppe, papà di Federico, in side-car con Bebo Bucci, vi si reca per sapere del figlio lontano. Budellacci, divenuto vescovo ausiliare di Frascati, quando la città viene bombardata, si prodiga in soccorsi, con il cuore di vero romagnolo. Del periodo degli studi sia a Faenza che a Bologna, Federico fa memoria dei professori, i fratelli Valli. Evangelista, di storia e filosofia, adamantino antifascista, soleva ripetere: «Se morivo in guerra, la prima, tutti gli onori. Sono rimasto ferito, allora niente». Concludo raccontando dell’incontro, nel dopoguerra, al Monticino di Brisighella, con il vecchio prof al liceo classico, don Giovanni Conti. Federico gli offre una sigaretta e il reverendo, alpino della prima guerra, sbotta: «L’alpino fuma solo pipa e sigaro. L’alpino delle sigarette, è l’alpino delle guerre perse».

Dante Albonetti