Su invito del Comitato di Amicizia l’abbé Pierre Kiema, che si prende cura dei progetti di promozione umana che l’organismo finanzia nei villaggi del Dipartimento di Diabo, in Burkina Faso, è giunto in Italia ed è stato ospite del gruppo di Modigliana. Sapendo della preoccupante situazione di instabilità, con l’espansione del gruppo armato jihadista, abbiamo chiesto chiarimenti a padre Pierre Kiema.
Quali sono le operazioni terroristiche che stanno costringendo la popolazione ad abbandonare le zone del Burkina confinanti con Malì e Niger?
Il Burkina ha iniziato a essere bersaglio di attacchi jlhadaisti dal 23 agosto 2015, quando un gendarme venne ferito a morte da tre uomini armati che indossavano il turbante, i quali attaccarono il posto di controllo della polizia nella periferia di Oursi. Testimoni affermarono che gli attaccanti appartenevano al gruppo Boko Haram, ma non vi è certezza. L’attacco al cuore del Paese fu perpetrato da un gruppo armato composto da tre uomini che raggiunsero il ristorante Il Cappuccino, frequentato da molti occidentali, e spararono contro coloro che erano seduti attorno ai tavoli della terrazza, causando 30 vittime. Nello stesso giorno vi fu un attacco all’interno dell’hotel Splendid, che causò diversi feriti, ma nessuna vittima. Successivamente, forse a causa della reazione delle forze armate, gli attacchi sono avvenuti nelle zone di confine con Niger e Mali, dove minore era il concentramento delle forze di sicurezza. Le popolazioni locali si impaurirono e iniziarono ad abbandonare le loro case e i villaggi rimasero spopolati. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, l’11 ottobre 2019, affermò che la violenza nel nord del Burkina Faso aveva causato lo sfollamento di 486mila persone, di cui ben 267mila negli ultimi tre mesi del 2019. La maggior parte aveva cercato rifugio nelle periferie delle città del centro del Paese e di Ouagadougou in particolare. Ben 16mila sono espatriati, molto probabilmente nella speranza di raggiungere l’Europa.
Dov’è vissuto lei dal 2015 al 2019 e com’è la situazione nella zona in cui ora vive?
Ero economo del Seminario di Bougui, situato a 10 km dalla città di Fada a margine della strada nazionale che conduce verso il Niger e la sua capitale Niamei. Nel 2014 sono stato nominato parroco di Matiokali, dove ho soggiornato per circa quattro anni. Il 1° settembre 2018 sono stato nominato parroco di Diabo, dove sono nato e dove, ancora ragazzino, ho conosciuto i volontari del Comitato di Amicizia, organismo che dal 1980 promuove lo sviluppo di quell’angolo del Burkina. La situazione a Diabo per ora è tranquilla, ma nella zona della parrocchia verso il Malì, dalla quale il confine dista 640 km, la popolazione vive nella paura. Io stesso un giorno, mentre tornavo da un villaggio dove avevo presieduto una cerimonia religiosa, fui fermato da un gruppo armato che mi disse: «Non abbiamo bisogno dei cristiani e quindi vattene». Non mi fecero nulla, vollero solo intimorirmi. Ho continuato a svolgere il mio Ministero, mettendo la mia vita nelle mani del Buon Dio. Anche la popolazione di Diabo centro, villaggio che ultimamente ha aumentato la sua popolazione a causa dell’arrivo di famiglie fuggite dalle zone di confine, vive nel timore di attacchi improvvisi dei jihadajsti. Essi hanno simpatizzanti in ogni angolo, i quali possono informarli su quanto accade nel villaggio. Immagini che per far partecipare un gruppo di fedeli di Diabo a un particolare cerimonia o incontro in una altra parrocchia, ero abituato a chiedere la collaborazione di un mussulmano proprietario di un minibus. Ebbene, poco prima della mia venuta in Italia, questi è stato imprigionato con l’accusa di avere contatti con i terroristi. Nella sua casa hanno trovato una gran quantità di denaro. Sembra che in occasione dei suoi viaggi verso l’interno ne approfittasse per trasportare carburante destinato ai terroristi. È per questa situazione che ho chiesto al Comitato di Amicizia di cessare l’organizzazione di campi di lavoro a Diabo, come in passato avveniva. La presenza di un bianco attira i jlhadaisti, perché prendere un bianco per loro significa poter chiedere un riscatto. Solo che poi tutta la popolazione può venire colpita, perché ritenuta colpevole di collaborazione con l’occidente cristiano.

Ultimamente sono avvenuti altri attacchi dai jihadaisti? Il Governo quale reazione ha avuto?
Nella notte fra il 4 e il 5 giugno 2021 un gruppo di jihadaisti ha attaccato Solhan, cittadina di 3mila abitanti, distante 130 km dal confine con il Niger. Alle due del mattino i ribelli hanno iniziato a sparare su chiunque trovavano per strada o, nelle case e hanno ucciso almeno 160 persone, fra essi una ventina di bambini
Agli attacchi dei jihadaisti, il Governo come reagisce?
Nell’attacco organizzato dai jihadaisti il 14 novembre 2021 a ovest della provincia di Soum, a 150 km dal Mali, è stata attaccata la gendarmeria, retta da 100/150 elementi. I jihadaisti hanno rivendicato la morte di una sessantina di gendarmi e la cattura di un bottino di armi da guerra: 86 fucili d’assalto AK, 5 lancia razzi e diverse mitragliatrici leggere. La base militare è stata completamente distrutta. Considerata la situazione, i vari comandi delle forze armate hanno rimproverato al Governo di essere inetti e il 24 gennaio scorso hanno organizzato un colpo di stato. Hanno deposto il capo dello Stato Roch Marc Christian Kaboré e hanno preso il potere affermando che avrebbero organizzato nuove elezioni. Purtroppo l’instabilità è continuata e ancora più grave è stato l’attacco del 9 giugno che lo Stato Islamico del grande Sahara ha perpetrato con 100 uomini contro una posizione dell’esercito burkinabe a Seytenga, città di 31mila abitanti al confine con il Niger nella provincia di Séno. In seguito alla disfatta dell’esercito, i jihadaisti sono entrati in città e alla popolazione hanno dato l’ordine di abbandonarla. Il gruppo jihadaista ha poi sparato agli uomini, risparmiando le donne e i vecchi, Alcune fonti affermano che circa 165 uomini sono stati uccisi. L’esercito burkinabe sta lottando contro questa violenza e si spera che il futuro riservi speranza per la popolazione.
È innegabile che nelle regioni di confine del Paese vi è una grande insicurezza. Voi burkinabe lamentate anche altri problemi?
La violenza ha causato un gran numero di sfollati interni. La città di Pama, posta sulla strada che congiunge il Burkina con il Benin, a ridosso del Parco della Panjari, ove si sono installati gruppi jihadaisti, ora è disabitata. La popolazione si è trasferita altrove, molti hanno raggiunto la città di Fada N’ Gourma in Burkina e vivono sotto ripari improvvisati ai bordi delle strade. Prima d’ora la popolazione principalmente praticava l’agricoltura e l’allevamento. Il commercio era la terza attività economica del Paese. Ora gli addetti all’agricoltura e all’allevamento sono diminuiti di molto, sia per la violenza che per la scarsità delle piogge. Nel complesso tutte le 13 regioni del Burkina presentano una situazione di sicurezza preoccupante e di insufficienza alimentare degradante.
In questo contesto come vive la popolazione?
Migliaia di persone, anche donne e bambini, sono vittime di atrocità, saccheggi e incendi di granai di cereali i cui raccolti erano già scarsi a causa della crescente siccità. Spesso sono vittime di torture fisiche ed esecuzioni sommarie. Le popolazioni sono traumatizzate. Le parrocchie e le associazioni umanitarie fanno quello che possono, ma le loro energie e disponibilità sono solo una goccia in un mare magnum di violenza e povertà. Le strutture di Ocades (Organizzazione Chiesa cattolica per lo sviluppo e la solidarietà) sono sempre affollate da persone che chiedono aiuti alimentari e sostegno economico. Dicono di aver abbandonato precipitosamente le loro case sotto gli atti di violenza e di non aver potuto portare nulla con sé. Nel 2021 la popolazione del Burkina contava circa 23 milioni di abitanti. Il numero degli sfollati aumenta ogni giorno. La carenza di scorte alimentari, causata dalla impossibilità di coltivare a causa delle poche piogge e della violenza, peggiora la situazione. La precarietà e la vulnerabilità delle popolazioni dei nostri villaggi sono sconcertanti, Il sorriso e la speranza sono scomparsi dai volti. Tutti si chiedono quando cesseranno le azioni terroristiche.
A conclusione dell’intervista mi sono sentito in dovere di rassicurarlo in merito alla collaborazione del Comitato di Amicizia che ho l’onore di presiedere. «I nostri volontari visitarono Diabo nel lontano 1980, e da allora hanno condiviso la vostra difficile realtà umana. Rassicura gli abitanti di Diabo, qualsiasi fede essi professino, che continueremo a essere al loro fianco». Prossimamente sul Piccolo illustreremo i progetti che l’abbe Kiema ci ha proposto di finanziare per dare un barlume di speranza ai giovani.
a cura di Raffaele Gaddoni