Andrea Spinelli è nato nel 1973. Da quando, nel 2013, ha ricevuto la diagnosi di cancro al pancreas non operabile e la prospettiva di vita di circa un mese ha scoperto la sua devozione per le camminate e la natura. Andrea al Festival dei Cammini che si è svolto alla chiesa dell’Osservanza di Brisighella lo scorso fine settimana ha raccontato che il carburante che gli consente di fare ciò che fa è proprio il camminare, la «cosa più facile e normale per noi esseri umani». Nel 2018 ha pubblicato Se cammino vivo, seguito poi due anni dopo da Il caminante.
Ad Andrea Spinelli nel 2013 venne prospettato un mese di vita a seguito di un cancro
Andrea, che cosa ti ha spinto a tornare al Festival?
Ho deciso di tornare, dopo la prima edizione del 2019, in primis per l’amicizia che mi lega a Luciano Albonetti e poi per raccontare le ultime novità sulla mia salute a livello oncologico, putroppo non rosee. Inoltre Brisighella per me è una sorta di crocevia di cammini e anche un luogo di scaramanzia che tanto mi sta a cuore e mi piace.
Prima che ti diagnosticassero il cancro avevi già la passione della camminata?
No, nel modo più assoluto. Infatti ero in sovrappeso e trovavo ogni scusa per prendere la macchina o le scale mobili. Ero però già amante della natura e del meraviglioso connubio siciliano della montagna e del mare, della bellezza.
Hai mai pensato di mollare?
No, mai, nonostante mi abbiano più volte detto e ripetuto che non ci sarebbero state speranze per me. Mi diedero venti giorni, sono passati nove anni e, in qualche modo, sono ancora qui e cammino. Mia moglie è il più importante punto fisso per me, colei che più ha avuto ed ha forza. Spero di non arrivare mai a pensare di volermi lasciar andare, almeno fintanto che la mia mente tiene duro.
Come mai tra tutte le passioni hai scelto proprio il cammino?
Sinceramente questa è una domanda alla quale sto ancora cercando una risposta.
Forse perché è la cosa più normale che un umano possa fare; altre cose mi sarebbero riuscite più difficili. Per me il cammino e la scrittura sono vere e proprie terapie che mi consentono di non tenere tutto dentro e, allo stesso modo, di condividere la mia esperienza con altri malati e non. Anche per questo senso di catarsi preferisco la camminata in solitaria a quella in gruppo; oltre, chiaramente, al fatto che io abbia bisogno dei miei tempi per via della malattia. Il bello, però, di non camminare da soli è che conosci persone nuove: così ho trovato alcuni dei miei più grandi amici.
Ti consideri cambiato come persona da quando hai cominciato a camminare?
Sì, mi considero soprattutto cresciuto. Ho l’impressione di aver capito tante cose della vita che prima, nella frenesia della quotidianità “veloce”, non avevo mai affrontato; per questo mi piace andare lentamente e assorbire in modo più profondo pensieri, panorami, paure etc. Il nostro è un dono: siamo proprio fatti per mettere un piede dopo l’altro, per camminare, muoverci. Andando veloce si vede, andando piano si guarda.
Vuoi dirci due parole sui tuoi libri?
Nel primo, Se cammino vivo, racconto la mia malattia ed i primi 2.000 km di cammino. Non era nemmeno scontato che arrivassi alla presentazione a Pordenone, infatti ero all’inizio di tutto, appena colpito da questo cancro. Quando ho visto che gli anni passavano ed ero ancora in vita ho deciso di dare vita a un nuovo libro, Il caminante, esattamente quello che è un racconto di evoluzione e dei successivi 20.000 km. Speriamo in tante altre “evoluzioni” negli anni a venire.
Vuoi lasciare un messaggio per i malati oncologici come te, e non solo?
Certo, mai perdere la speranza. Può sembrare scontato, ma io ci credo molto nella speranza, l’unica cosa che davvero conta.
Angela Albonetti