Un ritrovamento straordinario avvenuto in un cantiere edile di Faenza svela la storia di un neonato vissuto circa 5mila anni fa, nell’Età del Rame. Le analisi scientifiche internazionali hanno permesso di ricostruirne l’età, il sesso e parte della sua vita, restituendo alla città un nuovo, prezioso tassello della sua memoria più antica.
Un ritrovamento nel cuore di Faenza che racconta la preistoria

È già stato ribattezzato il “Bimbo primitivo di Faenza” il neonato di circa 17 mesi vissuto nell’Età del Rame (terzo millennio a.C.), i cui resti sono stati scoperti durante uno scavo archeologico preventivo per la costruzione di un nuovo complesso nella zona est città. Lo straordinario rinvenimento risale in realtà a circa cinque anni fa nell’area di via Fornarina, con gli scavi condotti, come previsto dalla legge, alla presenza della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio. Ad accorgersi della portata eccezionale dei resti, pare che sia stato lo stesso proprietario.
Il ritrovamento ha consolidato l’importanza del territorio faentino come luogo di antichi insediamenti preistorici, restituendo un reperto unico per l’archeologia italiana. L’Età del Rame, o Eneolitico, è infatti un periodo di transizione tra il Neolitico e l’Età del Bronzo ancora poco documentato nella penisola.
Scavi preventivi: valore e tutela del territorio faentino
La scoperta del “Bimbo primitivo di Faenza” rientra nell’obbligo di monitoraggio archeologico previsto per i cantieri con scavi superiori al mezzo metro di profondità. La nostra città non finisce di stupire: basti ricordare la fornace medievale emersa sotto il Palazzo delle Esposizioni o quella scoperta nell’area del nuovo stabilimento della Blacks, inaugurato pochi giorni fa.
Un’opportunità per conoscere la Faenza che fu. «Resti, benché fortemente compromessi, possano restituire preziose informazioni sulla vita nel passato – spiega il professor Stefano Benazzi del dipartimento di Beni culturali Unibo – se analizzati attraverso una strategia bioarcheologica integrata».
Una ricerca internazionale
I resti del bimbo eneolitico sono stati portati alla luce oltre cinque anni fa, ma la loro straordinaria rilevanza è emersa solo dopo lunghe e complesse analisi condotte da un’équipe internazionale. Come ha spiegato Owen Alexander Higgins, primo autore dello studio e assegnista di ricerca del Dipartimento di Beni culturali dell’Università di Bologna:
«I resti scheletrici mal conservati sono spesso ignorati nella ricerca antropologica a causa della bassa qualità diagnostica degli elementi ossei che compromette significativamente la nostra capacità di formulare ipotesi accurate sulla vita degli individui del passato. La nostra ricerca, tuttavia, dimostra che anche materiali osteologici estremamente degradati possono conservare informazioni importanti se analizzati con metodologie all’avanguardia».
Analisi scientifiche innovative

Nonostante la notevole frammentarietà dello scheletro — ridotto a pochi frammenti ossei e ad alcune corone dentarie — il team internazionale e multidisciplinare coinvolto nello studio è riuscito a ottenere risultati eccezionali. Attraverso tecniche laser, datazione al radiocarbonio, analisi microstrutturali, istologiche, genomiche e paleoproteomiche, gli studiosi hanno stabilito che il bambino era di sesso maschile e aveva circa 17 mesi al momento della morte.
Determinante è stato lo studio del dna estratto dai resti: ha permesso di identificare un raro aplogruppo mitocondriale utile per approfondire l’ascendenza materna e le dinamiche di popolamento della penisola in quel periodo. Anche le arcate dentarie hanno fornito informazioni preziose sull’alimentazione e sui modelli di crescita infantile dell’epoca.
Un lavoro di squadra internazionale
Lo studio è stato coordinato dall’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna (https://www.unibo.it/), con il coinvolgimento di Sapienza Università di Roma, Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology (https://www.eva.mpg.de/), Università di Modena e Reggio Emilia, Goethe Universität Frankfurt, Lamont-Doherty Earth Observatory of Columbia University, Università del Salento, Università di Padova e del Ministero della Cultura (https://cultura.gov.it/).
I risultati sono stati pubblicati sul Journal of Archaeological Science, dando alla scoperta una risonanza internazionale.













