In bilico tra l’amore per il lavoro e la fatica di lottare contro un sistema che sembra creato apposta per scoraggiarti. La storia di Stefano Tanesini, titolare con la moglie di un’azienda di biancheria intima a Cotignola con undici dipendenti, è il racconto di una piccola impresa che, dopo due alluvioni devastanti, si trova sospesa tra la speranza di rialzarsi e l’amarezza per una burocrazia che rallenta la ripartenza. Dopo quasi 40 anni di sacrifici e crescita, Tanesini racconta le difficoltà e il sostegno della comunità, ma si chiede se potrà davvero riaprire le porte della sua azienda.
Intervista a Stefano Tanesini, titolare di un’azienda di biancheria intima di Cotignola
Tanesini, come ha vissuto l’azienda le due alluvioni?
La prima alluvione, nel maggio 2023, ci ha colpito duramente, ma non ci siamo fermati. Già 24 ore dopo eravamo al lavoro per asciugare e ripulire tutto. Abbiamo contratto nuovi mutui, fatto nuovi investimenti senza risparmiarci, e un mese e cinque giorni dopo abbiamo riaperto. Poi, a settembre 2024, è successo di nuovo, con ancora più violenza. Questa volta sono arrivati 1,24 metri di acqua e fango: le macchine da cucire, i dispositivi elettronici, le materie prime: tutto è stato sommerso. L’intera area, dagli uffici al magazzino, è stata invasa da argilla e melma, rendendo molte attrezzature irrecuperabili. Di nuovo. Quello che proviamo oggi, con questa nuova alluvione, è molto diverso rispetto la prima: c’è sconforto.
A quanto ammontano i danni che avete subito?
Solo nell’ultima alluvione stimiamo perdite per almeno 350mila euro. I danni riguardano sia i macchinari, sia le materie prime e i prodotti finiti che erano pronti per la vendita. Dopo il primo disastro non ci siamo arresi, ma oggi siamo appesantiti dai debiti e senza le certezze necessarie per andare avanti.
Quali difficoltà avete riscontrato con le pratiche per ottenere i risarcimenti?
Il problema principale di Sfinge è la complessità delle procedure. Ogni singolo bene perduto deve essere dichiarato nella piattaforma con dettagli minuziosi: fattura, specifica di riparazione o certificato di irrecuperabilità, e foto del danno. E parliamo, per noi, di almeno 300 beni. Se poi un fornitore ha emesso una fattura unica per compiere riparazioni multiple, questa non viene accettata dalla piattaforma, perché serve una fattura per ogni specifico bene. Bisogna fare richiesta di nuove fatture dettagliate, coinvolgere ancora il fornitore. E tutto questo mentre l’azienda è ferma e deve occuparsi di altro. Per realtà come la nostra, senza un ufficio amministrativo numeroso, ogni pratica richiede tempo ed energie che andrebbero invece dedicate a clienti, fornitori e collezioni. Si fa presto a scoraggiarsi.
Ritiene che il sistema di risarcimento vada rivisto?
Sì, penso che manchi un supporto sul campo per le piccole realtà. Per chi ha strutture ampie e risorse, le pratiche possono essere complesse, ma gestibili. Per chi, come noi, ha solo un impiegato, ogni documento è un ostacolo. Sarebbe fondamentale avere un pubblico ufficiale che possa certificare i danni e impostare la documentazione in modo corretto, senza intermediazioni o lungaggini. Oggi per ottenere i risarcimenti chi ha avuto 10 centimetri d’acqua e chi ne ha avuti più di un metro sono trattati allo stesso modo: tutto dipende dai documenti che si riescono a presentare. Ed è facile arrendersi.
Come ha reagito la comunità?
La risposta è stata incredibile. Amici, clienti e anche sconosciuti ci hanno supportato in ogni modo possibile. Noi vendiamo sia attraverso il nostro punto vendita di Granarolo Faentino, fortunatamente illeso, sia online, e abbiamo deciso di creare una lista speciale per i clienti del nostro e-commerce, chiedendo loro di aiutarci acquistando i prodotti rimasti. Nel giro di un’ora, oltre 800 persone si sono iscritte, lasciando messaggi di sostegno e dimostrandoci un affetto che ha dato un po’ di speranza a tutti noi. Leggere quei messaggi ci ha spinti a non mollare.
È questo sostegno che vi sprona a ripartire?
Sì, perché dimostra che la nostra azienda ha un valore per molte persone. Nonostante tutto, i nostri clienti continuano a credere in noi e ci chiedono di resistere. Anche le nostre dipendenti, che ormai per noi sono come una famiglia, ci incoraggiano a trovare una soluzione. È una piccola impresa, ma negli anni ha costruito legami e creato rapporti che non si possono cancellare facilmente.
Come vede il futuro?
Oggi non lo so. Con mia moglie siamo arrivati a considerare l’idea di cedere l’attività alle nostre dipendenti, se saranno disposte a portarla avanti. Per noi, che abbiamo oltre 60 anni, continuare con i debiti e le incertezze è diventato complicato. L’azienda, fondata dai miei suoceri negli anni Settanta e rinnovata nel tempo, rappresenta un pezzo di vita importante, un patrimonio di esperienze e legami. Se potessi contare su un aiuto concreto e immediato, forse ci sarebbe una speranza; altrimenti, siamo costretti a valutare anche la possibilità di chiudere.
Come potrebbe cambiare il sistema di aiuti per dare più sostegno alle piccole aziende?
Un’azienda ha bisogno di certezze, soprattutto quando è in difficoltà. Ci serve sapere se e quando arriveranno i fondi promessi, senza ritardi e procedure estenuanti. Dopo due disastri così vicini nel tempo, senza un sistema di supporto chiaro, è difficile decidere di investire ancora. Le piccole imprese hanno bisogno di stabilità per continuare a lavorare e contribuire alla propria comunità. Spero davvero che chi prende le decisioni possa ascoltare queste difficoltà e capire cosa significhi rischiare tutto ogni volta.
Samuele Marchi