Una delle paure più grandi è abituarsi alla vista di quelle macchie e incrostazioni sulle pareti. Ormai è un anno che sono lì, ben visibili, in quella casa così come altre centinaia di abitazioni a Faenza. All’inizio erano il marchio inconfondibile dell’alluvione, ora gli occhi passano sopra quelle macchie e non ci fanno più caso. In un certo senso, la banalità dell’alluvione, che prende forma anche di quell’unico fornello di emergenza in cucina o di una cantina, un tempo piena di oggetti e ricordi, rimasta vuota. «Se da un lato l’abituarsi a tutto questo ci aiuta ad andare avanti con le nostre vite, passo dopo passo, dall’altro non dobbiamo dimenticarci che c’è ancora tanto da fare per tornare a rivedere le nostre case come prima, non bisogna accontentarsi».
A parlare è Debora, residente in via Della Valle, una delle strade più colpite dall’alluvione. Alle tre di notte del 16 maggio è riuscita a fuggire col marito: prima la tappa al palaBubani, poi il trasferimento da un’amica per dieci giorni.
Nel frattempo, ci si è alternati a spalare il fango dalla casa, aiutati da vicini e volontari arrivati da tutta Italia. «In un certo senso faccio fatica a lamentarmi per quanto mi è accaduto: c’è chi è stato molto più sfortunato di me – commenta Debora – la nostra abitazione ha visto entrare 50 centimetri d’acqua al piano terra. Abbiamo perso tutto ciò che era nella cantina e nel garage, molti mobili ed elettrodomestici, e ancora oggi ci viene sconsigliato di imbiancare».
In via Della Valle con l’alluvione, ci si è accorti che un centimetro in più o un centimetro in meno può fare la differenza tra perdere tanto o perdere quasi tutto. Tante case, ancora oggi, nell’area del Borgotto sono disabitate, e i segni di speranza arrivano da qualche attività che riaperto, come la pizzeria il Girasole, la sede del sindacato Cgil, il negozio di pesca.

Come “reinventarsi” una casa

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La forza dei volontari, dei vicini e degli amici nella prima fase è stata fondamentale. «Ricordo con piacere un gruppo di 17 persone di Gorizia – ricorda -, che mi ha dato una grossa mano a ripulire la cantina, e con cui ci siamo fatti tante risate: anche solo ritrovare le palline di plastica di Natale tra il fango diventava l’occasione per improvvisare una partita di pallavolo». Poi i volontari vanno, i riflettori cominciano a calare. Come per tanti faentini, questi dodici mesi sono stati vissuti con fasi alterne, tra rassegnazione e speranza. «Sicuramente quest’anno ha significato per me tanta fatica. Dopo i primi mesi di grandi lavori e di adrenalina, c’è stato un momento davvero difficile tra luglio e agosto. Si era sgombrata casa dal fango, e la Caritas diocesana ci ha prestato un deumidificatore, ma non si poteva intervenire più di tanto per ripristinare l’abitazione. Mi sentivo bloccata e inutile, perché non si riusciva a fare niente, all’epoca non si parlava nemmeno di perizie. Quello è stato di sicuro il momento più complicato». Il marito si è dato da fare con interventi di falegnameria per ripristinare un minimo l’ambiente in maniera vivibile. «Con materiale da riciclo, per esempio – dice – ci siamo inventati un piano lavandino, e abbiamo recuperato diverse sedie e mobili».

«Ora c’è più senso di comunità»

Al tempo stesso, questi mesi hanno significato anche il ritrovarsi come comunità. «Anche se ognuno cerca di arrangiarsi come può e le situazioni sono difficili – dice Debora – ogni volta che ci incontriamo con altri residenti del quartiere, si condividono le difficoltà. Ci si saluta di più. Non capita spesso di incrociarsi, ma se capita ci salutiamo e parliamo un po’. Ecco, questo prima era più limitato. Meno saluti e sicuramente meno convenevoli. Si inizia poi a parlare di tanti argomenti, ma alla fine si torna sempre lì, all’alluvione, a quanto sia complesso ripartire. La gente porta ancora tanto non-detto, dentro di sé, sull’alluvione, e ha piacere di parlarne». Con il comitato cittadino del Borgotto, ci si confronta in maniera periodica sulla ripartenza. «Una delle più grandi nostre preoccupazioni – spiega Debora – è la situazione degli argini in via Fratelli Bandiera. Ben venga quello che è stato fatto col muro di via Renaccio, ma anche qui bisognerebbe forse fare qualcosa di più. La paura che possa ricapitare c’è, e non nascondo che quando piove molto cresce sempre un po’ di inquietudine». Ora il tema urgente è quello dei ristori, tra burocrazia, tecnici e documentazione da presentare alla piattaforma Sfinge. «Abbiamo fatto partire le perizie tecniche – spiega Debora -, ma di fatto abbiamo una situazione bloccata perché già prima dell’alluvione avevamo in programma di fare dei lavori nella nostra abitazione e non sappiamo ora come muoverci. Dovevamo, per esempio, abbattere un muro, ma se lo facciamo ora, poi, arriveranno i rimborsi? Vorremmo installare delle paratie per tutelarci, ma possiamo farlo prima di aver presentato la domanda?». Con parte dei soldi del Cis, nelle prossime settimane tornerà la cucina. «Ogni tanto abbiamo invitato alcuni amici a mangiare a casa nostra – ricorda Debora – perché così potessero vedere come era, ancora oggi, la nostra situazione, con una cucina d’emergenza, le macchie sul muro… in tanti non si rendono conto che non è per niente finita».

Samuele Marchi