Un tentativo di inquadrare, dal punto di vista storico e scientifico, le ragioni di quanto accaduto. È questo l’obiettivo del libro L’acqua sopra i ponti. Disastri e altre storie del fiume Lamone (Yanez libri) che vede tra i suoi autori Stefano Saviotti, studioso della storia edilizia e urbana di Faenza. Con lui approfondiamo i temi del suo contributo al libro, scritto assieme a Miro Gamberini, Sguardo d’insieme sul fiume Lamone.

Intervista a Stefano Saviotti: “La storia ci dice che a Faenza ci sono zone inclini da millenni ad allagamenti”

Saviotti, come nasce il vostro contributo?

Nel 2013 io e Miro Gamberini abbiamo realizzato un cd che raccoglieva la documentazione storica relativa ai ponti di Faenza fin dall’epoca romana. Per l’occasione abbiamo raccolto anche diverse mappe storiche di grande valore. A seguito degli eventi alluvionali dell’anno scorso, abbiamo pensato che quella potesse essere la base per uno studio più ampio sul Lamone e sullo spiegare perché è successo quello che è successo. Superata la fase più emotiva, a mente fredda è importante rielaborare l’alluvione in chiave storico-scientifica, grazie al contributo di diversi altri esperti. E da qui si vede come il destino della città sia legato, da sempre, a quello del fiume.

Un rapporto non sempre pacifico.

Già a fine anni ’90 si è scoperto come nel centro storico di Faenza esistessero due antiche curve del fiume che passavano dalla zona degli ex-Salesiani e del rione Nero. E il Lamone cerca di tornare in zone dove passava in antico: nelle mappe presenti nel libro vengono tracciati tutti i cambiamenti di corso che ha avuto il fiume nel corso dei millenni.

Tra le alluvioni più note, ci fu quella del 1842.

Quella piena ha molte somiglianze con quella del 2023: ci fu l’allagamento parziale del Borgo (allora era privo di mura nel lato verso il fiume). Le cronache riportano episodi di salvataggio di persone nel Borgotto, dove c’era un piccolo nucleo di case, da parte dei carabinieri pontifici. Si trovano documenti sui danni alle infrastrutture, ma poco sui privati: quelle poche case coloniche in quelle zone erano delle semplici casa di contadini che perdevano le bestie e di cui non si faceva carico nessuno. Il problema per il Comune erano situazioni come il crollo della chiusa di Errano: nel 1842 a Faenza non si poteva più macinare. O il ricongiungimento con il Borgo dopo il crollo del ponte delle due torri: ci vorranno 23 anni prima che venga ricostruito un ponte. Un altro elemento messo in luce è l’importanza che, nella storia, hanno avuto le mura manfrediane. Furono fondamentali per impedire gli allagamenti nei secoli scorsi. Nel Seicento e nel Settecento più volte il fiume è arrivato a ridosso delle mura, che hanno resistito, altrimenti Faenza poteva essere inondata.

Dagli inizi del ‘900 con l’abolizione della cinta daziaria nel 1905, le mura sono state però aperte e questa difesa è venuta meno.

In contemporanea c’è stata però la costruzione degli argini artificiali, su cui ci si è affidati. Il Lamone ha cominciato ad assumere l’assetto attuale, e Faenza ha iniziato a estendersi al di fuori delle mura, dapprima negli anni ‘20 con qualche strada, tipo via Carboni, e altre case sparse. La vera urbanizzazione c’è stata negli anni ‘60, arrivando poi alla situazione attuale con la costruzione di tanti edifici presenti oggi nelle zone alluvionate. Quello che emerge dalle nostre ricerche è che, storicamente, ci sono zone pericolose a Faenza che possono essere invase dal fiume. Lo erano millenni fa e lo sono oggi, per cui bisogna metterle in sicurezza.

Quali sono le caratteristiche del fiume Lamone?

Il problema del Lamone è che ogni anno trasporta con sé moltissimo fango dall’argilla che viene erosa dai calanchi. Quando il fiume arriva in pianura e perde velocità, il fango si deposita ai lati degli argini e fa crescere delle golene laterali. Nel libro sono presenti foto che testimoniano come all’inizio del ‘900 gli argini terminassero con un fondo piatto e largo. Col tempo si sono creati quella sorta di gradoni che poi si sono riempiti di alberi e orti. Tutto ciò ha ristretto la sezione del fiume e la sua capacità di portata. Si viene così a creare la necessità di alzare sempre di più gli argini, con il paradosso per cui prima o poi devi alzarli in continuazione, ed è una soluzione infattibile.

E dal punto di vista climatico cosa ci può dire su quanto accaduto?

Randi nel suo contributo descrive la “tempesta perfetta” che si è abbattuta sulla Romagna. C’è stata la concomitanza di fattori sfortunati e rari, che hanno portato per giorni piogge persistenti sugli Appennini che il terreno non ha avuto modo di assorbire, specie dopo periodi di siccità. I cambiamenti climatici in atto ci pongono però una riflessione più ampia, rispetto alla semplice casualità degli eventi. I recenti allagamenti dei giorni scorsi sono lì a testimoniarlo. Per decenni ci si è appoggiati sulla fiducia sugli argini, in un clima di generale positivismo. Nessuno ha mai pensato che potesse succedere qualcosa di simile a Faenza. Ora invece bisogna ripensare la cura del territorio, a partire dal più piccolo fosso. Ci siamo risvegliati da un sogno in cui credevamo di essere padroni di tutti. Serve più consapevolezza.

Come proseguiranno le vostre ricerche?

Gli spunti di approfondimento ci sono, ma per farli è necessario che riapra l’archivio di Stato. La nuova sede è ancora chiusa per problemi burocratici da un anno e mezzo.

Il libro ha raccolto esperti, fotografi e giornalisti

bookpolaris

Con L’acqua sopra i ponti l’editore Polaris ha coinvolto in questo progetto i migliori studiosi su piazza, di geologia, meteorologia, storia locale, idrografica e urbana, e i migliori giornalisti e fotografi tra coloro che hanno più accuratamente documentato gli avvenimenti. Il libro si apre con il lavoro, che è il testo principale di questo libro, di Miro Gamberini e Stefano Saviotti: essi ricostruiscono, con minuzia di particolari, di documentazione d’archivio e di cartografie d’epoca, l’evoluzione storica del Lamone nel suo rapporto spesso non pacifico con la città, ripercorrendo la storia dei suoi ponti, più volte distrutti. Tra gli altri collaboratori: l’archeologa Carlotta Franceschelli, il geologo Stefano Marabini, il meteorologo Pierluigi Randi, il direttore del Piccolo Samuele Marchi, il fotografo Raffaele Tassinari, il cultore di storia locale Paolo Campana. Il libro ha l’introduzione di Gabriele Albonetti.

Nella foto, da sinistra: Stefano Saviotti, Miro Gamberini, Raffaele Tassinari e Samuele Marchi