L’importanza di lavorare in équipe, il rischio di etichettare in negativo i nostri ragazzi, l’instaurare una relazione autentica con chi il Signore ci ha affidato. Sono questi alcuni degli spunti emersi dalle due serate dedicate a Elementi di pedagogia proposte dal percorso Chiesa, famiglia educante promosso dal Servizio Tutela minori della Diocesi di Faenza-Modigliana. A relazionare in questi due incontri è stata la pedagogista Martina Tarlazzi, che attraverso il commento ad alcuni episodi significativi della vita di Gesù – la Samaritana, il miracolo di Lazzaro… – albi illustrati e le ultime ricerche scientifiche ha approfondito il tema dell’educare oggi.
Dobbiamo metterci accanto ai nostri giovani e aiutarli a fare delle scelte
Fin dalla prima serata è stata proposta un’autoanalisi ai partecipanti: qual è la stella che ci guida nel nostro essere educatori? Perché lo facciamo? L’educatore è prima di tutto una persona in cammino. «Partiamo dal presupposto che l’educatore non è un superuomo – ha detto Tarlazzi – e non per forza deve risolvere ogni situazione o piacere a tutti i ragazzi. Deve però aiutare i propri giovani a fare delle scelte.». Gesù rappresenta il paradigma verso cui vertere la nostra azione educativa. «Il Vangelo è di per sé un testo pedagogico ricchissimo – ha sottolineato Tarlazzi – e Gesù rappresenta il più grande educatore a cui possiamo fare riferimento».
Non si educa mai da soli: l’esempio di Gesù
Tra gli episodi citati, quello della Samaritana. «Intanto Gesù non si presenta a lei come un superuomo, anche lui mostra a volte di essere affaticato. Ha bisogno di bere – ha precisato la pedagogista – per cui anche noi non dobbiamo operare da soli, ma chiedere aiuto, lavorare in équipe. Non si educa mai da soli». In questo episodio evangelico Gesù dimostra di conoscere bene la Samaritana, non mette davanti il suo ruolo dall’alto al basso, ma instaura relazione vera con lei. «Anche noi dobbiamo conoscere bene i nostri ragazzi – spiega Tarlazzi – senza avere un tono giudicante. Darsi delle regole è importante, ma l’instaurare una relazione di fiducia lo è ancora di più».
Anche l’ambiente educativo dove svolgiamo le attività di catechismo o parrocchiali, spesso messo in secondo piano, è importante. «Educhiamo anche con l’ambiente nel quale svolgiamo le nostre attività: l’intuizione è già della Montessori, che lo definiva il “terzo educatore”. Se educo nell’ambiente sbagliato faccio il doppio della fatica. Se gli spazi in cui ci troviamo a fare catechismo non ci piacciono o sono sporchi e vecchi, dobbiamo cambiarli, coinvolgendo anche i nostri ragazzi sia nel processo decisionale sia nel lavoro concreto. L’ambiente di tutti e dobbiamo capire come starci bene assieme: questo favorisce anche la discussione sia all’interno dell’equipe sia con i nostri ragazzi». Importante anche l’alleanza educativa con le famiglie: «Dobbiamo sempre interfacciarci con loro».
Le “mode” pedagogiche
Sono state poi illustrate alcune mode “educative” che si sono sviluppate in particolare negli ultimi anni come la pedagogia libertaria o la pedagogia dolce. “Quest’ultima ha portato un beneficio sottolineato anche dalle neuroscienze: la ‘botta’ o la violenza, anche a fini educativi, ai più piccoli non fa bene, perché verrà replicata dai bambini stessi come unica modalità di risposta. Certo, non bisogna neanche passare a forme estremiste di pedagogia dolce. Bisogna utilizzarla in modo intelligente”. Tarlazzi ha precisato però che “tutte queste, a volte, sono delle mode pedagogiche, perché le ricerche sulle neuroscienze vanno avanti. Regole sì o regole no? Almeno nei principi base noi ci dobbiamo ancorare a qualcosa di più forte: la persona di Gesù. Non è una moda passeggera, è il fondamento”.
“Attenzione a ‘etichettare’ i nostri ragazzi”
Tarlazzi ha poi ricordato come la relazione educativa sia, per sua natura, una relazione asimmetrica, nella quale l’educatore deve essere un punto di riferimento, un faro, pur imperfetto, che sa cogliere il grido d’aiuto nelle provocazioni che lanciano i propri ragazzi. “Non bisogna lasciarsi trascinare dalle loro provocazioni: gli adolescenti in particolare in questo modo ci mettono alla prova, testano la nostra autorevolezza e autenticità. Bisogna accoglierle invece e cercare di capire cosa c’è sotto quella provocazione o quel comportamento di sfida”. Una cosa importante da non fare, sia di fonte a loro ma anche quando si lavora di equipe, è quella di etichettare in negativo i nostri ragazzi. “E’ il primo modo per tarpare loro le ali e appiccare un’immagine stereotipata che poi sarà difficile per loro togliersi. La nostra parola e la nostra etichetta sono fondamentali: non sappiamo che effetti possono avere le nostre etichette sui nostri ragazzi, specie sui bimbi piccoli. Bisogna stare attenti”.
Samuele Marchi