Edmond Rostand, notevole autore della letteratura ottocentesca francese, risulta famoso soprattutto per il Cyrano de Bergerac, l’opera teatrale che fin dalla sua prima rappresentazione parigina del 1897, riscosse immediato successo. Rostand lo si ritiene ancora immerso nel Romanticismo, il movimento artistico letterario che in reazione al razionalismo settecentesco dell’Illuminismo, voleva trarre ispirazione dal sentimento, dalla fantasia e dalla profondità delle forze dell’animo umano. I Re Magi è il titolo del breve testo che verrà proposto al termine di questa introduzione.


Il poeta ci coglie di sorpresa, perché intende inoltrarsi dietro le quinte del sontuoso scenario in cui vengono solitamente collocati i Magi. Sappiamo bene che l’incedere solenne dei tre ricchi saggi provenienti dall’Oriente, la magnificenza del vestiario, i lunghi cortei di paggi e accompagnatori, nelle rappresentazioni visive, fanno parte dell’immaginario collettivo. Sebbene i nomi propri dei Magi non compaiono affatto nel brano del Vangelo di Matteo, le tradizioni apocrife hanno fissato tre in particolare, Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Sono preziosa struttura e presenza nei presepi di ogni tempo. Ma il Vangelo non parla né di tre né di re. Dai tre doni offerti, oro incenso e mirra, fioriscono e si ricamano illazioni e fantasie. Premetto tali notizie consuete e famigliari perché nella prossima poesia, acquista spessore il Magio dalla pelle nera, emarginato dagli altri due. Il nostro autore capovolge la situazione e descrive un precario quadro di tristezza e smarrimento dei tre protagonisti. La scomparsa della stella porta una stretta al cuore dei Magi, visti come soli e isolati, forse in zona arida, ormai sul calare della sera, con il plumbeo sovrastante inutile cielo. La stella è fuggita dallo sguardo dei Magi perché due di loro, agli occhi del poeta, come si diceva, sono figure storpiate della saggezza, tronfi e saccenti nel loro esagerato intellettualismo. La vanità di un monco sapere, che appare nei bigotti di ogni epoca, la palese o meno alterigia, secondo l’antico adagio che la superbia è figlia dell’ignoranza, sono un anti-vangelo, condannato anche da san Paolo. I Magi della poesia, sconsolati e sconvolti, si rinchiudono mesti nelle loro congetture, estraniandosi anche dalla realtà. Come automi innalzano il tendone per la notte. Ed ecco che il Magio africano, abbandonato dagli altri, ha conservato, insieme allo studio personale, cuore sensibile e occhi aperti. Non si cura solo della propria sete, fisica e spirituale, ma sa accorgersi della sete dei cammelli. L’umile Mago, mentre prepara il secchio per i giumenti, ottiene il dono miracoloso di ritrovare la stella. Nel mio viaggio in America Latina, nelle Ande peruviane, di tanto tempo fa, raccontavo nelle chiese, un’antica storiella spirituale, ad attoniti fedeli. «Cercavo Dio, guardai il cielo, ma non lo trovai. Cercavo la mia anima, guardai dentro di me e non la trovai. Andai dai poveri e trovai la mia anima e Dio». I gesti di carità, l’attenzione delicata al prossimo, il bene gratuitamente seminato, a uomo o animale che sia, come in questo caso, fanno ritrovare la stella, che orienta il cammino, che dà sapore alla vita. Ecco il testo in traduzione italiana.

I Re Magi

Perderono la Stella, una sera; perché si perde la Stella?

Per averla troppo a lungo fissata.

I due re bianchi, essendo sapienti della Caldea

tracciarono al suolo col bastone dei cerchi.

Fecero calcoli, si grattarono il mento

Ma la Stella era fuggita, come fugge un’idea.

E quegli uomini la cui anima aveva sete d’essere guidata

Piansero innalzando le tende di cotone

Ma il povero re nero, disprezzato dagli altri due

Si disse: «Pensiamo alla sete che non è la nostra.

Bisogna lo stesso, dar da bere agli animali».

E mentre teneva il secchio dell’acqua per l’ansa

Nell’umile cerchio di cielo in cui bevevano i cammelli

Egli vide la Stella d’oro, che danzava in silenzio.

Dante Albonetti