Il 21 settembre scorso si è celebrata la giornata dedicata ai malati di Alzheimer e a chi se ne prende cura, i familiari, i caregiver.
Chi si occupa di questa patologia segnala costantemente come gli ospedali fatichino a gestire questi malati, quando giungono in ospedale per il sovrapporsi di altre patologie. Questo problema non riguarda solo i malati di Alzheimer, ma tanti anziani con problemi cognitivi, problemi a volte già noti, a volte presenti, ma che si manifestano in modo evidente proprio in occasione di un ricovero. Un trauma, un’ infezione vissuti in un ambiente nuovo, fra persone sconosciute, fra esami, manovre più o meno complesse sono sufficienti ad alterare un equilibrio fragile. Per molti anziani l’ospedalizzazione è ambivalente: da una parte risolve problemi, dall’altra ne crea dei nuovi. Non è una novità. I trenta anni di lavoro in geriatria sono stati una lunga ricerca condivisa con tutti gli operatori per far sì che gli aspetti positivi dei ricoveri superassero quelli negativi, che il ricovero non fosse il motivo della perdita dell’autosufficienza, ma, anzi, occasione per il recupero della massima autonomia possibile. Questa ricerca mi ha poi accompagnato nell’affrontare i problemi dei tanti parenti o amici anziani, che ho seguito dopo il pensionamento.

La vicinanza dei familiari

Le strategie trovate erano due: permettere il più possibile ai familiari di stare vicino ai propri cari e mobilizzare quanto prima gli anziani per prevenire la “sindrome da immobilizzazione”, causa di tanti danni fisici e psichici. Non è stato un processo rapido: in tanti reparti le ore di presenza dei familiari erano molto ristrette, quasi che i parenti costituissero più un problema che una risorsa, mentre in Geriatria li prendevamo a tutte le ore, ma tanti non avevano proprio nessuno. Con gli anni si è condiviso sempre di più che la presenza di un familiare, di una persona conosciuta poteva tranquillizzare un anziano, che questa era la risorsa principale, solo in assenza di questa si usava la contenzione fisica o farmacologica. In tanti anni in Geriatria, mentre quasi tutti i pazienti avevano almeno una sponda nel letto, per proteggerli dalle cadute, e alcuni avevano cinture di protezione mentre erano soli in carrozzina, non si legavano mai le braccia di un anziano alle sponde, se non in casi eccezionali e per brevissimi tempi.

La mobilizzazione precoce

L’altra strategia era la mobilizzazione precoce. Quanta strada è stata fatta anche per questo, per far capire che stare troppo a letto non faceva bene, soprattutto agli anziani. Bisognava alzarli quanto prima, per evitare complicazioni. Se il personale era scarso, i parenti o le badanti aiutavano il personale. Quanta formazione fatta nella Scuola Infermiera, nei corsi per Oss, per le associazioni di volontariato sui danni fisici, psichici della sindrome da immobilizzazione, quanti sforzi per diffondere l’importanza della riattivazione e della riabiltazione! Sforzi che si sono poi scontrati coi tagli del personale, coi tagli delle risorse.

anziani


La pandemia

Poi a complicare tutto è arrivato il Covid, che ha cambiato completamente l’assistenza, eliminando la presenza dei familiari e creando un superlavoro per gli operatori. Quanta sofferenza: anziani allettati continuamente, alcuni con le braccia legate alle sponde, perché, nell’estrema solitudine e agitazione, non si togliessero catetere, flebo, sondini nasogastrici…. Quanta fatica per permettere la presenza dei familiari, almeno vicino alle persone più fragili, quando il Covid, coi vaccini, ha cominciato a fare meno paura! Quante domande inoltrate da più parti a Regione, Azienda perché gli anziani con disturbi cognitivi fossero tutelati come i bambini, e potessero avere accanto un familiare, come avveniva in Pediatria. Inutilmente. La sofferenza degli anziani non fa rumore. Se poi “non capiscono”, per qualcuno non soffrono, solo perché non riescono a raccontare il loro dolore. Poi l’ emergenza Covid è finita, tolto ogni obbligo, tolte le mascherine, solo qualche precauzione “volontaria”.

I tanti “perché?”

Alla fine d’agosto sono andata a trovare un anziano, una persona amica, ricoverata in un reparto medico. Aveva già un lieve disturbo cognitivo, usava il deambulatore; una caduta aveva causato l’invio in ospedale: non erano state riscontrate fratture, ma i medici del Pronto soccorso avevano ritenuto necessario il ricovero. L’ho trovato a letto, con le braccia legate alle sponde. Mi ha riconosciuto, ma era confuso. Mi hanno detto che cercava di togliersi flebo, catetere, per questo l’avevano legato. Speravo che fosse una situazione transitoria e coi parenti si trovasse modo di slegarlo, mobilizzarlo, aiutarlo a mangiare autonomamente, toglierlo da quella posizione dannosa.
Sono tornata la settimana successiva: stessa situazione, stessa posizione supina, ma con le gambe flesse. Ma una buona notizia: sta meglio e fra pochi giorni viene dimesso. “Che bello!” Gli dico. “Torna a casa, così provano ad alzarlo, almeno in carrozzina”. Poi arriva la notizia che non può tornare a casa, è venuta la febbre, un’infezione. Sono andata due giorni fa: si è aggravato, sempre supino, con le gambe flesse, sempre legato da più di 20 giorni, più confuso. Mi ha riconosciuto solo quando mi sono tolta la mascherina, mi ha sorriso. Dopo un po’ l’ho salutato. Non so se rivedrò più questa persona cara, se tornerà più a casa. Porto con me il sorriso che mi ha rivolto, quando mi ha riconosciuto, la frase che mi ha detto ogni volta che sono andata a trovarlo: “Gabriella, slegami!”, la mia impotenza e tanti, tanti “perché? “.

Gabriella Reggi