Quando pensiamo al rapporto tra Dino Campana e Marradi ci viene subito in mente qualche parola come “difficile” o “conflittuale”, per non dir di peggio. Può anche darsi che l’idea di un Campana odiato dal suo paese, che lo chiamava e màt e gli tirava i sassi, sia un po’ esasperata, magari enfatizzata da quei giornalisti che a Marradi, sulle tracce del poeta, non si erano poi trovati così bene. È innegabile, tuttavia, che il rapporto tra Campana e il suo paese natale sia, quantomeno, “difficile”: è lui stesso a dircelo. Certo non è facile capire in cosa consistesse, esattamente, questa difficoltà di rapporti. Per esempio bisogna ricordare i 44 sottoscrittori che aiutarono il poeta a far pubblicare i Canti Orfici, proprio a Marradi, nel 1914.

I marradesi nei Canti Orfici

E i marradesi presenti nel poema? C’è «Catrina», una fanciulla di Campigno, contadina, che seduce la fantasia di Campana che la paragona a una specie di madonna di Dante e dello Stilnovo; c’è la «bona gente» di Orticaia (Gamberaldi) che lo accoglie, pare, dolcemente al termine del suo pellegrinaggio a La Verna. Ma siamo pur sempre nei confini, nelle frazioni; degli abitanti di Marradi “centro” non si parla; oppure se ne parla, nelle lettere, in modo non edificante: ad esempio, è lo stesso poeta a dirci che quella famigerata dedica a «Guglielmo II Imperatore dei Germani» la aggiunse nei Canti Orfici per «far dispetto al farmacista al Sindaco all’arciprete».

Marradi un paese ridente

Date queste premesse, sembrerebbe che il poeta non amasse il suo paese. Eppure quando parla di Marradi, tutto è ridente, ride tutto: «Il mattino arride sulle cime dei monti» (verso rifatto forse sulla traduzione di uno del Romeo e Giulietta di Shakespear); il Castellone ride: «Il vecchio castello che ride sereno sull’alto»; il campanile di Marradi ride: «Una cupola rossa ride lontana con il suo leone». Insomma, a Marradi ride tutto, o meglio ridono gli elementi naturali e architettonici. Si obietterà che in questo ritratto di Marradi si fornisce una veduta aerea, dall’alto, cioè non si scende in paese, e soprattutto non vi sono i marradesi, a parte una «Venere», chissà chi è, che «passa in barroccio accoccolata per la strada conventuale».

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Anacleto Francini, in arte Bel Ami

Quello che voglio sostenere, però, è che l’immagine di Marradi che ride viene proprio da un marradese, che conosciamo bene: Anacleto Francini, che di “riso” se ne intendeva. Commediografo, showman, giornalista, paroliere, autore della canzone Creola, Francini, in arte “Bel Ami”, è stato un amico di Campana, tanto che quest’ultimo, in una lettera del 1915, lo raccomanda a Papini. Il poeta aveva persino recitato, nel Teatro Animosi, in ben due commedie di Bel Ami.
Ebbene, il 1° aprile 1906 il giornalista aveva pubblicato, sul Corriere della Romagna Toscana, una lunga poesia intitolata Marradi. Si tratta di un componimento di 48 versi, in strofe saffiche, di gusto carducciano (viene in mente Piemonte di Carducci). Il cuore della poesia è dedicato alla celebre battaglia delle Scalelle, quando i contadini marradesi, il 25 luglio 1358, sconfissero il conte Lando e le sue schiere di mercenari. Francini si rivolge, in un bellissimo endecasillabo, direttamente al “Castellone”: «Ma tu ricordi quando alle Scalelle…» (v.17). Ed ecco, nel racconto della battaglia, lo stile s’innalza, sfiorando le vette dell’epica. C’è anche, incastonato nei versi, un accenno all’origine del nome “Marradi”, che probabilmente viene da “marra”, cioè una piccola zappa con ferro triangolare: «in lancia trasmutò la marra» (v. 22): il soggetto è il montanaro che trasforma la sua zappa in una lancia da scagliare in testa al Conte Lando. Inoltre, subito dopo, c’è un richiamo a un altro emblema di Marradi, il castagno: questa volta è il «castaneo flaüto silvestre», con cui i contadini marradesi si trastullavano bucolicamente, a essere tramutato in strumento bellico, l’«oricalco», cioè la tromba di guerra.

Marradi, angolo oraziano

Ma torniamo a Marradi che ride. Vi sono diversi indizi che Campana conoscesse questo componimento. Senza entrare troppo nei tecnicismi, Marradi di Francini si apre con l’immagine dell’acqua – specchio, un’immagine che è anche in Marradi (Antica volta. Specchio velato) di Campana. Francini chiama il Castellone «vecchio castello»; e così fa anche Campana quando scrive, nei suoi appunti del Quaderno, «Il vecchio castello che ride sereno sull’alto». In Francini c’è «ne la gloria del sole aureo sorride Cerere amica» (Cerere è la dea dei campi) e in Campana: «traspare il sorriso di Cerere bionda» (siamo nel diario de La Verna). Entrambe le Cerere dei due poeti sorridono. Per la verità, vi sono tanti altri dati che fanno sospettare che Campana, almeno quando scriveva di Marradi, avesse in mente proprio la poesia Marradi dell’amico Anacleto Francini, ma per ora fermiamoci qui. Vorrei invece attirare l’attenzione su un altro dettaglio. Intanto vale la pena ricordare che «il vecchio castello» e la «cupola rossa» di Campana ridono anche perché hanno una porta (un arco, una volta) che nel poeta suggeriscono l’immagine di un volto sorridente. Ma c’è un dettaglio interessante, dicevo, nella poesia di Bel Ami. In epigrafe, sotto il titolo, si legge infatti una citazione del poeta latino Orazio: «Ille terrarum mihi praeter omnes / Angulus ridet…» (Odi, II, 6, vv. 13.14) che in italiano si può tradurre con “quell’angolo di terra mi sorride più di qualunque altro”. Anche qui c’è il riso. Orazio parlava delle colline vicino a Taranto; Anacleto Francini, che cita Orazio, parlava chiaramente di Marradi. In realtà la locuzione di Orazio «Angulus ridet» era già al tempo di Francini quasi proverbiale per denotare un luogo appartato, naturale, lontano dal caos cittadino, che ride, cioè rende felici (per chi sa goderselo). Marradi era questo per Bel Ami. Sarà stato così anche per il suo amico Campana?

Leonardo Chiari