Ultima campanella dell’anno. Via libri e quaderni e spazio all’estate. Eppure queste sembrano frasi un po’ stonate, come fuori luogo o fuori tempo in questo giugno che si fa largo un po’ maldestro nelle strade faentine ancora infangate. La scuola finisce anche quest’anno con promossi e bocciati, rimandati e salvati in calcio d’angolo, ma è solo questo ciò che riguarda e interessa i nostri ragazzi? Evidentemente no.

Chi affronterà la maturità quest’anno ha conosciuto in seconda e terza superiore la pandemia obbligato a stare a casa e in quinta si è trovato in mezzo a una città trasformata con gli stivali nel fango e in mano pale e tira acqua. Chi si diploma quest’anno sembra non aver niente in comune con chi ha preso la maturità cinque o sei anni fa. C’è allora qualcosa da chiedersi, e l’interrogazione stavolta è per gli adulti, prof e genitori. La domanda non è il semplice e perentorio che cosa abbiamo sbagliato, ma che cosa non dobbiamo sbagliare più?

Se vogliamo essere all’altezza di educare in questo tempo di sfide e di difficoltà, probabilmente dobbiamo anche avere il coraggio di guardarle in faccia e chiamarle per nome. Come ci insegna don Milani di cui abbiamo ricordato il centenario della nascita lo scorso 27 maggio. Oggi è ancor più vero che non c’è niente di più ingiusto che far parti uguali tra diseguali. Ed è ancor più vero non solo da un punto di vista socio-economico, ma anche da un punto di vista generazionale; la scuola di qualche anno fa non può esserci perché i ragazzi non sono quelli di qualche anno fa e la società stessa è immersa in un cambiamento rapido e inarrestabile. Le fatiche che prima non riuscivamo a verbalizzare ora portano i ragazzi a chiedere aiuto. A noi adulti il compito di saperle ascoltare.

Ecco allora che occorre rivedere il sistema di valutazione, ripensare il modo di far lezione, trasformare le lingue morte in qualcosa che possa incuriosire e dare strumenti di lettura dell’oggi, pensare all’alternanza scuola-lavoro come a qualcosa che permetta ai ragazzi di conoscersi e trovare la propria strada. Ma c’è qualcosa di più. C’è la consapevolezza di una sfida difficile in cui torna chiaro un concetto: durante la pandemia abbiamo imparato che nessuno si salva da solo, dopo l’alluvione che ci si rialza solo insieme. Allora è necessario ricordare che non si educa in solitudine. Ecco forse il punto di svolta, l’eredità di questi anni difficili: la consapevolezza che l’insegnante non va lasciato da solo.

Qualche settimana fa il professore e scrittore Eraldo Affinati in un’intervista riflettendo sui fatti di Abbiategrasso, ovvero sull’episodio che ha visto un sedicenne accoltellare la sua insegnante di lettere, ha detto: “l’insegnante è troppo solo di fronte ai ragazzi. Oggi più che mai avrebbe bisogno del supporto di una èquipe.”  Questo perché la scuola è un ambiente complesso che riflette la complessità della società e complessità significa intreccio, significa stringere legami che hanno bisogno di spazio: la scuola è “vite che si intrecciano, generazioni che si parlano, culture che si confrontano, cittadini che si formano”, ha detto Affinati.

Per questo dobbiamo essere pronti a situazioni difficili, nell’emergenza come nella normalità, in cui tra l’altro le nuove tecnologie non sono sempre un supporto e spesso contribuiscono ad allentare i rapporti umani, a renderli più distanti. Dobbiamo essere pronti a insegnare in una dimensione collettiva in cui davvero sia la comunità ad essere educante e in cui l’insegnante sia colui che accompagna i ragazzi verso il domani, con l’appoggio dei genitori e non con la loro opposizione. Questo desiderio può concretizzarsi solo se viene declinato al plurale. In una società narcisistica e consumistica a cambiare la rotta non può essere un io, ma soltanto un noi.

Letizia Di Deco