Improvvisamente, gli ultimi eventi atmosferici hanno costretto a lasciare casa per l’inesorabile e rapido sopraggiungere dell’acqua tracimata da fiumi e canali. Un’acqua scura, limacciosa, penetrata senza preavviso a mettere in discussione la certezza di avere la disponibilità di un luogo per sé e per la propria famiglia in cui stare al sicuro, in cui vivere e riposare. Siamo ancora nella seconda fase di questa vicenda. Dopo l’improvvisa invasione, eccoci infatti allo sforzo immane di metter fuori acqua, fango e tanti oggetti utili alla quotidianità. Sono arrivati amici con volti noti e persone sconosciute, tutti a condividere questo lavoro sporco e pesante. Cantine, ripostigli e piani terra: sono tanti i luoghi da ripulire. Che poi vanno asciugati e arieggiati, e quindi rimessi in ordine da un punto di vista strutturale. Collegamenti fognari ed elettrici, allacci gas, porte e finestre. Infine, un po’ alla volta, rioccupati e resi vivibili.

L’acqua ha intaccato una delle cose più care a tutti noi, la casa. Per capire meglio quanto tutto questo possa incidere sulle nostre vite, in particolare su quelle di quanti sono stati costretti ad allontanarsene temporaneamente, ne abbiamo parlato con il sociologo Everardo Minardi.

Intervista al sociologo Everardo Minardi: “Occorre una strategia complessiva, da bene comune, in cui avere anche memoria storica”

Coloro che si sono visti arrivare l’acqua sotto i piedi hanno vissuto l’invito ad abbandonare casa. Ora cercano e sperano di rientrare quanto prima dentro le loro quattro mura, ma non sempre è possibile. Almeno in tempi brevi.

Mi viene naturale pensare a due cose. Per prima a come dare risposta in un breve-medio termine alle domande essenziali di una domus in cui collocare in forma individuale la persona in emergenza. Tra gli sfollati abbiamo chi va ad abitare presso amici o parenti e non sempre, anche in ragione degli spazi, i nuclei possono rimanere uniti. Per secondo, invece, occorrerebbe pensare alla destinazione di mezzi e risorse che finora non erano considerate, ma che ora andrebbero ridestate per chi è in stato di emergenza. Cercando anche di capire quanti rischiano di rimanere fuori da queste possibili risposte.

Il patrimonio abitativo è cresciuto in anni recenti ben oltre le reali esigenze della popolazione, potrà aiutare a risolvere i problemi sorti con questo disastro naturale?

Occorrerebbe fare il punto sulla situazione cercando di capire quante sono le case recuperabili in città, come nelle campagne.
Fra l’altro in regione c’è anche una legge che favorisce il recupero di case per il ripopolamento dell’Appennino. Ma restando a Faenza, chi ha in mano la situazione delle case abbandonate, dove si vede benissimo che non sono abitate? Ho l’impressione che finora questa Amministrazione non abbia voluto prendere in considerazione questa situazione. C’è vincolo a non usare zone nuove, a maggior ragione occorrere vedere quali case recuperare. Si dice che Faenza disponga di oltre 3mila appartamenti vuoti. Lo diceva già l’assessore Domizio Piroddi, ma all’epoca si prese delle sgridate in proposito. Dunque è giusto evitare il consumo e la distruzione di nuovo suolo agricolo. Occorre procedere con il recupero delle case nuove e non finite. Questione di pochi mesi e l’inverno arriverà di nuovo e nelle zone invase non si possono risolvere tutti i problemi alla svelta. Occorre una strategia complessiva, da bene comune, in cui avere anche memoria storica.

Memoria storica. Per esempio?

Penso alla confluenza tra Marzeno e Lamone; ai miei tempi c’era la spiaggia e con la dovuta attenzione si andava anche a fare il bagno. Ma allora il fiume era un bene comune, per cui i contadini e altri accedevano agli alvei e li ripulivano per ricavarne la legna da ardere durante l’inverno. Occorrere darsi una politica di bene comune che abbia attenzione anche sugli effetti della natura. In città e in Borgo occorre far memoria di quanto accaduto.

a cura di Giulio Donati