Suor Chiara Agati, se non fosse stata accolta nella Fraternità Dives in Misericordia, Casa della Carità “Piccolo Gregge” di San Pietro in Trento (Ravenna), in qualche modo avrebbe potuto contribuire a un diverso sviluppo urbanistico del nostro territorio. Venticinque anni fa, infatti, si è laureata a Ravenna in Scienze Ambientali con la tesi Studio dei condizionamenti e delle opportunità ambientali del bacino idrografico del fiume Lamone in provincia di Ravenna. Una tesi che piacque e fu premiata dall’Associazione Industriali, con 3 milioni di lire. Ma il suo cammino stava già prendendo un’altra direzione, stava diventando sempre più spirituale pur non scordando l’attenzione alla terra e all’ambiente a misura umana.

Intervista a suor Chiara Agati, la sua tesi in Scienze Ambientali sul Bacino del Lamone fu premiata dagli industriali di Ravenna

fiume lamone zampaglione

Suor Chiara, già allora lei sosteneva che la pianificazione territoriale andava affrontata con criteri multidisciplinari. Cosa significa?

Un territorio non è un concetto astratto, ma una realtà geografica, ecologica e amministrativa, costituita da un ambiente naturale nel quale si inseriscono le attività umane. A sua volta questa attività è generata da processi culturali che coinvolgono la sociologia, la psicologia fino alla creatività e alla spiritualità. Ciascuna attività assorbe risorse dall’ambiente e all’ambiente restituisce i prodotti del suo metabolismo. Anche la natura è soggetta a una serie di mutamenti che vanno dalla variazione della morfologia del paesaggio fino alle interazioni che le specie vegetali e animali hanno con l’ambiente circostante. In poche parole un territorio è una realtà viva, complessa, diversificata e al tempo stesso profondamente unitaria, che si modifica attraverso innumerevoli fattori, e si articola in strutture, funzioni, relazioni, alle volte evidenti, alle volte difficili da identificare e decifrare. C’è una frase, tratta dal film The Butterfly Effect del 2004, che il mio professore di climatologia amava citare: «Il minimo battito d’ali di una farfalla è in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo». Questa frase rende bene l’idea della complessità di cui si deve tenere conto nell’atto della pianificazione territoriale. Pensare che si possano semplicemente disegnare su una cartina le zone destinate a insediamenti urbani, piuttosto che industriali o agricoli, in base alla necessità di estendere questi spazi, senza fare uno studio su vasta scala, è una cecità che ci costerà molto cara. La sera della Processione della Madonna delle Grazie ero in cattedrale a Faenza con i ragazzi che parteciperanno alla Gmg. Era passata da pochi giorni la prima alluvione del 3 maggio, e mi ha colpito sentire il vescovo dire che la Natura ci presenterà un conto molto salato. Purtroppo un’altra grossa rata di questo conto è arrivata solo 13 giorni dopo. Il deterioramento dell’ambiente non è una punizione divina, ma la conseguenza di un uso irrazionale delle risorse ambientali, di un’offesa alle leggi naturali determinata dall’egoismo e dalla speculazione a danno di beni che sono collettivi.

Gli effetti dell’alluvione: “Tutto nasce da un uso irrazionale delle risorse ambientali”

alluvione

A chi chiese aiuto per la tesi?

Desideravo fortemente terminare il mio percorso universitario con un lavoro che potesse essere utile alla collettività. Lo studio analitico necessita di una multidisciplinarietà che poi richiede strumenti costruiti ad hoc per far sintesi e riportare all’unità le varie discipline. Era proprio questo lo scopo della mia tesi: elaborare uno strumento in grado di fornire ai soggetti decisionali, competenti sul territorio, indicazioni utilizzabili relative ad aspetti di importanza ecologica. Così cominciai a cercare delle persone che avessero un ruolo attivo sul campo. Eravamo nel 1996. Chiesi così all’architetto ravennate Aida Morelli (dal 2021 è presidente dell’Ente Parco del delta del Po) per la parte relativa alla cartografia e alla pianificazione territoriale, e a un giovane geologo che stava svolgendo il Dottorato di ricerca in Geologia applicata, incentrato sullo studio dei metodi per la realizzazione delle carte della pericolosità da frana, Gabriele Bernagozzi (oggi responsabile Area Idrogeologia di Enser di Faenza), che mi spiegò il modello matematico basato sulla Matrice di interazione di Hudson, che lui stava utilizzando per lo studio delle frane e che io estesi all’applicazione multidisciplinare da me impostata. Il tutto sotto la supervisione del professor Giampaolo Salmoiraghi, docente di Ecologia Applicata.

Dunque, dov’era meglio costruire?

La mia risposta rischierà di essere superficiale. Sicuramente, e questo vale per tutti i nostri fiumi, sarebbe stato necessario costruire in aree non di pertinenza del corso fluviale, o perlomeno alternare zone urbane, in cui il corso viene imbrigliato e messo in sicurezza, con zone “naturali” in cui il corso è libero di modificarsi dispiegandosi sul territorio. Le anse sono un grandissimo dissipatore di energia: durante le piene il corso si modifica con esondazioni estese che disperdono l’enorme quantità d’acqua che diversamente si riversa come una valanga con i disastrosi effetti che abbiamo potuto ben vedere. Ma anche questa è una semplificazione, l’approccio deve essere necessariamente complesso.

Ci fu qualche interesse alla sua tesi?

Sì, mi fu offerto di continuare presso la Regione lo studio del modello da me elaborato. Anche il premio assegnatomi dagli Industriali della provincia di Ravenna per la miglior tesi sperimentale a servizio del territorio locale, fu una grande sorpresa. Andai a ritirare il premio già con l’abito. Fu una grande emozione. Oggi però appare come un’utopia. Se 25 anni fa abbiamo investito tutte le energie per studiare, convinti che ci sarebbe stata una svolta politica a livello di gestione dell’ambiente e di coscienza ecologica, oggi dobbiamo riconoscere che purtroppo non c’è stata. La Valutazione di impatto ambientale (Via) oggi è uno dei tanti orpelli burocratici di cui sono gravate le grandi opere pubbliche e private, senza un vero beneficio a favore dell’ambiente e di conseguenza della collettività, perché ogni beneficio e ogni danno sull’ambiente sono danni o benefici per l’umanità e per ciascuno di noi, e questa alluvione ci dovrebbe aver fatto vedere che, dall’umanità in senso lato a ciascuno di noi e alle nostre case, il passo è molto breve.

Sul progetto di invasi a Sarna: “Le casse d’espansione sono solo un palliativo: bisogna ricercare altre vie per un nuovo equilibrio con la Natura”

alluvione volontari

Come vede la tesi dell’ingegner Marco Peroni, che per Faenza sostiene l’idea di una cassa di espansione in zona Sarna?

Non posso rispondere con completezza perché richiederebbe uno studio aggiornato. Quello che posso dire è che 25 anni fa, la Carta della Vulnerabilità da me elaborata indicava una zona che, iniziando da San Ruffillo passando per Errano fino a Faenza, era soggetta ad alta vulnerabilità che diventava altissima nella zona a sud di Faenza. La vulnerabilità è l’inverso della capacità di un sistema di adattarsi a un’alterazione, è quindi il contrario della resilienza. Anche la zona di Sarna appariva ad altissima vulnerabilità e caratterizzata da aree degradate a basso pregio ambientale, mentre il corso del Lamone, da Sarna in poi, appariva già fortemente artificializzato e da rinaturalizzare almeno in parte. Quindi, per quel che può valere il mio parere, fondato su uno studio di 25 anni fa, la zona indicata da Peroni sembrerebbe potenzialmente adatta a cassa di espansione. Il punto è che le casse di espansione sono una soluzione emergenziale che possono e devono essere percorse a breve termine, ma a lungo termine queste scelte non basteranno, sono solo palliativi. Dobbiamo avere il coraggio di intraprendere altre vie, a livello locale e a livello globale, vie che invertano lo squilibrio causato dall’uomo ai danni del creato.
Vie rispettose dell’ambiente e dell’uomo.

Giulio Donati