Siamo fatti di scelte: a volte facciamo quella giusta e a volte facciamo quella sbagliata. Ci possono essere errori più piccoli ed errori più grandi ed è giusto riconoscerli. È giusto che si venga giudicati se si commette un reato, ma qual è la pena giusta? Può uno Stato decidere di dimostrare che uccidere sia sbagliato uccidendo, a sua volta, chi ha commesso un omicidio? Ne abbiamo parlato con Arianna Ballotta, preside della Coalizione italiana contro la Pena di Morte, associazione senza scopo di lucro nata nel ’97 che si occupa di cittadinanza attiva e di informare e formare sui temi della legalità, dei diritti umani e in particolare sull’applicazione della pena di morte nel mondo, con uno sguardo attento alla situazione negli Stati Uniti, unica democrazia occidentale che ancora applica la pena capitale come strumento di giustizia. Martedì 4 aprile è stata ospite del liceo Torricelli-Ballardini di Faenza insieme a Karl Louis Guillen, ex detenuto nel braccio della morte in Arizona e oggi scrittore.
Intervista ad Arianna Ballotta, presidente della Coalizione italiana contro la pena di morte

Da molti anni la vostra associazione promuove nelle classi del liceo la possibilità di corrispondere con i condannati a morte. Come è nata questa idea?
L’idea di iniziare questo progetto con i ragazzi nasce da una mia dolorosa vicenda personale che mi ha permesso di capire cosa significa perdonare. Questa esperienza ha spinto me per prima a corrispondere con un condannato a morte e in seguito, dopo aver fondato l’associazione, abbiamo pensato di incoraggiare questa corrispondenza anche nelle scuole. È uno scambio epistolare che fa crescere a livello umano e aiuta molto i detenuti che patiscono vere e proprie torture psicologiche vivendo in situazioni di isolamento totale: se pensiamo alle carceri del Texas, Paese con il record di esecuzioni, in cui i detenuti vivono in perenne isolamento 23 ore al giorno e l’ora d’aria viene concessa sempre in isolamento in un cubicolo, capiamo come queste condizioni comportino una totale disumanizzazione. Il carcerato diventa una matricola, un numero e gli viene vietato il contatto fisico anche con i familiari più stretti. Corrispondere con i condannati è poi anche un modo per rendersi conto di come e quanto spesso ci siano anche errori giudiziari per i quali a finire nel braccio della morte sono persone innocenti.
Perché è importante parlare di queste cose con i ragazzi?
Per capire cosa succede in Italia e nel mondo. Anche noi abbiamo forme di condanna definitive, come l’ergastolo ostativo. La prima cosa da fare sarebbe evitare che le persone finiscano in carcere. È necessario salvaguardare soprattutto le classi più svantaggiate della società con un’efficace prevenzione nelle famiglie, sui media, a scuola. Pensiamo, ad esempio, a come il fenomeno della dispersione scolastica si leghi spesso alla devianza giovanile nelle periferie delle metropoli. Sarebbe poi molto importante che in carcere ci fossero adeguati percorsi di riabilitazione, altrimenti il tasso di recidiva è molto alto, come accade in Italia.
Qual è il messaggio della vostra associazione?
Noi ci opponiamo alla pena di morte incondizionatamente, con la convinzione che il rispetto dei diritti umani rappresenti una priorità incontestabile e che la giustizia non possa essere perseguita con spirito di vendetta, bensì con un’equilibrata gestione delle forze che operano nella società. Non facciamo differenza tra chi è colpevole e chi è innocente. Mi rendo conto che l’opinione pubblica viene sconvolta soprattutto dalla possibilità di innocenza di un detenuto, ma per quel che ci riguarda è l’atto della pena di morte in sé che deve essere condannato. Sappiamo anche che non ha alcun effetto deterrente e laddove è applicata i casi di omicidio non calano. La vita va salvaguardata sempre e la società deve essere protetta, ma non uccidendo chi sbaglia. Il carcere deve dare al reo la possibilità di redimersi.
Se venisse abolita la pena capitale negli Usa forse anche altri stati seguirebbero l’esempio. Le cose stanno cambiando, per fortuna, e le esecuzioni sono diminuite di molto. Molti Stati americani stanno applicando moratorie sulle esecuzioni anche per motivi economici: secondo uno studio condotto in Texas un singolo caso di pena capitale costa in media 2,3 milioni di dollari, ossia fino a quattro volte di più di una condanna a 40 anni in un carcere di massima sicurezza e in alcuni casi un singolo caso capitale è costato ai contribuenti circa 4 milioni di dollari.
“Come si può, mettendo a morte un cittadino legalmente e in nome del popolo, sostenere che uccidere è sbagliato?”
Che cos’è secondo lei la giustizia?
Secondo me è dare a tutti le stesse possibilità. Giustizia è quando una persona colpevole viene giudicata da suoi pari senza che faccia differenza il luogo da cui proviene, il suo status sociale, senza discriminazioni razziali. Questo non è tema affrontabile in poche righe, ma i diversi studi fatti sul rapporto tra reddito e criminalità portano a concludere che i fattori economici possono a volte essere cruciali nel condizionare una “criminalità per bisogno”: ne consegue che le persone appartenenti agli strati più bassi della società sono maggiormente a rischio. Se prendiamo come esempio i condannati a morte americani scopriamo che il 99% di essi è accomunato dal fatto di essere povero e, quasi sempre, di vivere in una condizione di emarginazione. Nessuna persona benestante finisce nel braccio della morte: avere un buon avvocato difensore, un bravo investigatore fa la differenza. Molti non possono dimostrare di essere innocenti perché prove e indagini hanno un costo che lo Stato non sostiene e pertanto gli avvocati d’ufficio, per quanto volonterosi, non riescono a fornire un’adeguata difesa legale ai propri assistiti.
E il perdono?
Il perdono è riuscire a capire che anche la persona che ha commesso un crimine terribile è un essere umano come te e che tutti possono sbagliare. Il perdono non cancella e non cambia il dolore, ma permette di vivere meglio. È capire che l’unica speranza nel mondo è perseguire unicamente il bene. Una società violenta in cui lo Stato decide di uccidere chi ha ucciso non è una società giusta: come si può, mettendo a morte un cittadino legalmente e in nome del popolo, sostenere che uccidere è sbagliato?
Coalit, storia dell’associazione
La Coalizione Italiana Contro la Pena di Morte Onlus è stata fondata a Napoli nel 1997. Scopo dell’associazione è informare e formare i cittadini italiani e stranieri sui temi della legalità, dei diritti umani, in Italia e all’estero, e in particolare sull’applicazione della Pena di Morte nel mondo. L’associazione è particolarmente attenta alla situazione negli Stati Uniti, stati nei quali i volontari si recano spesso di persona, in quanto unica democrazia occidentale che ancora applica la pena capitale come strumento di giustizia. Le varie attività dell’associazione si svolgono nelle scuole, negli istituti religiosi, nelle organizzazioni laiche, nelle associazioni e cooperative di tutto il territorio italiano.
Letizia Di Deco