Domenica 16 aprile alle 17 padre Ubaldo Cortoni, monaco camaldolese, presiederà la celebrazione eucaristica in occasione del terzo centenario dalla costruzione della chiesa di Sant’Antonino di Faenza. Seguiranno i saluti del vescovo monsignor Mario Toso e di monsignor Mariano Faccani Pignatelli, gli interventi di don Marco Ferrini, Patrizia Capitanio, Marco Mazzotti, Nullo Pirazzoli, Fabio Chiodini e Andrea Cimatti.

Sulla chiesa di Sant’Antonino, le sue testimonianze artistiche e la sua storia è poggiato, per molti, un velo d’ombra che vogliamo tornare a sollevare cogliendo l’occasione dei trecento anni dalla sua costruzione. La celebrazione degli anniversari ha senso nella misura in cui la conoscenza passato ci aiuta a tener vivo il presente, quindi a immaginare un futuro. Quando ci si mette a “ficcar lo naso” nelle cose del passato ciò che è lontano e sfuocato diventa vicino e nitido. E la visione dei dettagli ci porta oggi a comprendere che, in questa storia, poco o nulla sembra essere lasciato al caso. Che la fede cristiana non è una semplice suggestione del sentimento, ma poggia su testimonianze efficaci di persone in carne e ossa che questa fede l’anno vissuta fino al dono della loro stessa vita.

La chiesa della Ss. Trinità

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L’attuale chiesa parrocchiale viene costruita a partire dal 1721, in un periodo di rinnovamento architettonico che coinvolge l’intera città di Faenza. La badessa del monastero della Ss. Trinità, Candida Boni di Forlì pone la prima pietra il 17 agosto. Occorreranno tre anni per il suo completamento e l’8 aprile, prima domenica dopo Pasqua, nel giorno in cui le monache celebrano la festa annuale di santa Vittoria, viene consacrata la chiesa annessa al monastero che sarebbe stato costruito fra il 1731 e il 1749. L’edificio viene costruito su un insediamento religioso preesistente da secoli in quel luogo: la secolare presenza religiosa femminile, mai davvero fiorente nel Borgo Durbecco, conosce un momento di provvisoria ricchezza dovuto alla presenza dell’ordine camaldolese, che nel corso dei secoli, lascia una decisiva impronta nella storia religiosa e sociale del Borgo e nel suo panorama architettonico. L’invasione e le soppressioni napoleoniche porranno fine alla vita della comunità religiosa in Borgo. Nel 1812, il parroco dell’attigua chiesa di S. Antonino, ormai labente, adibirà la sua canonica negli spazi del convento della Trinità, trasferendovi la parrocchia e traslocandovi alcuni importanti beni provenienti dalla precedente chiesa, come il crocifisso ligneo risalente al Quattrocento e l’affresco della Madonna della Misericordia. Ma la testimonianza più antica è un’epigrafe paleocristiana, proveniente da catacombe romane, con questa iscrizione: Vittora anoru XV inirus huca (Vittoria di 15 anni è qui). Le monache camaldolesi ne veneravano le reliquie, tutt’oggi custodite in una teca dentro l’altare.

Progetto e costruzione

Giuseppe Antonio Soratini (1682-1762) è l’architetto designato per la costruzione della nuova chiesa. Originario del bresciano, approda quasi per caso a Ravenna mentre è diretto a Roma, in visita allo zio monaco presso il monastero di Classe. Lì si fermerà per tutta la vita, unendo la vocazione religiosa a quella di architetto autodidatta. Soratini entra a far parte dei “frati conversi” dell’ordine camaldolese e collaborerà alla costruzione della biblioteca (oggi Classense), di ristrutturazione della fabbrica di San Gregorio al Celio (Roma), fino a diventare un prolifico e originale architetto su tutto il territorio italiano. Soratini lascia alla biblioteca di Classe un’importante messe di carte con un regesto completo di tutti i suoi lavori, e un plico di questi documenti riguarda il cantiere della chiesa e del monastero della Ss. Trinità, per i quali egli fornisce i disegni, lasciando la conduzione del cantiere a Giovanni Bertoni, uno dei più valenti capimastri del tempo a Faenza.
A Girolamo Bertos, scultore friulano, viene commissionato l’altare principale, su disegno del Soratini. Uno dei retroscena più importanti della realizzazione della chiesa riguarda la pala d’altare dedicata alla Ss. Trinità, commissionata – come ricaviamo dai documenti – a un pittore bolognese non ben identificato. Grazie alle piste aperte dai documenti consultati, oggi siamo in grado di dire con certezza che il dipinto è di Marcantonio Franceschini.

La pala di Franceschini

PALA TRINITA FRANCESCHINI

Marcantonio Franceschini (1648-1729) è da considerarsi il migliore allievo di Carlo Cignani, tra i maggiori esponenti della pittura del ‘600 bolognese. Franceschini è brillante esponente di un’epoca di transizione dal tardo barocco al primo classicismo. I suoi riferimenti pittorici sono Guido Reni, Domenichino e Francesco Albani e il suo punto di forza espressivo è la composizione figurativa, tratto fondamentale del periodo classicista. La produzione artistica di Franceschini, una volta affrancatasi dalla scuola del maestro (1680), va a proiettarsi in una dimensione nazionale ed europea. Nella sua piena maturità dipingerà un quadro come L’estasi di S. Maria Maddalena, donato al papa Clemente XI, che gli affiderà i cartoni per i mosaici della cappella del coro in S. Pietro. Oggi le molte opere del pittore bolognese, sparse tra Italia, Europa e America, godono di un importante riconoscimento critico.

Il dipinto della Ss. Trinità, commissionato dai camaldolesi per conto delle monache di Faenza, è un’opera della maturità del Franceschini (1723). Il Padre e il Figlio vengono collocati in una dimensione naturalistica, che li coglie in una tipica posa di inerzia sospesa che conferisce alle figure la quiete dinamica dell’attimo. La posa quasi conviviale è sottolineata dalla mano del Figlio che tocca quella del Padre, delicatamente poggiata sul globo terraqueo. Il richiamo alla creazione del mondo si intreccia con altri elementi simbolici dell’altare e della chiesa che rimandano al piano salvifico, atto eterno del Dio unico che entra nella dimensione temporale della storia umana.

Chi fu sant’Antonino

Si tratta di una figura abbastanza sconosciuta ai più, ma anche di un unicum nel panorama dell’agiografia cristiana, cioè un santo orientale che trova notevole fortuna in Occidente e sul quale fiorisce un importante messe di leggende. Basti pensare che solo in Italia a S. Antonino sono dedicati ben 99 luoghi di culto. Le informazioni storiche sul suo conto sono molto scarne: originario di Apamea (Siria), Antonino è un giovane scalpellino che, infiammato di zelo per il Dio cristiano, si reca presso un tempio e distrugge gli idoli esortando i pagani ad abbandonare le loro superstizioni. Imprigionato e gravemente ferito, dopo essere stato liberato ottiene dal vescovo locale il permesso di costruire un tempio alla santa Trinità. Iniziata la costruzione, gli abitanti del luogo accorrono di notte e lo uccidono tagliandolo a pezzi. Il culto del Santo è attestato in Siria fin dal VI secolo, ma successivamente, in Francia, si sviluppa un intricato culto basato sulle reliquie, e su racconti leggendari che trasformano il santo siriano in un santo francese di nobili origini capace di miracoli straordinari, al limite del favoloso. L’intricato puzzle relativo alla storia e al culto di questa figura lascia, tutt’oggi, zone d’ombra difficili da diradare. Tuttavia, la vicenda di questo martire, ucciso mentre costruiva una chiesa dedicata alla Ss. Trinità, rimane sorprendentemente intrecciata con la chiesa sorta con la stessa intitolazione e di cui celebriamo il terzo centenario dalla costruzione.

Marco Ferrini