Un “piano di corresponsabilità” tra Chiesa, società civile e istituzioni contro le povertà, la dispersione scolastica, il lavoro nero e tutte le mafie, “in cui la Caritas si fa facilitatrice, perché le sfide possiamo affrontarle solo insieme. È l’idea lanciata da don Marco Pagniello, direttore di Caritas italiana, a conclusione del 43° Convegno nazionale delle Caritas diocesane che ha riunito dal 17 al 20 aprile a Salerno 660 delegati da 173 diocesi. Quattro giorni di testimonianze e interventi che hanno messo in evidenza la necessità di “abitare il territorio con creatività”, mettendo al centro la comunità, rendendo i poveri protagonisti dei processi decisionali. Ma soprattutto dialogando con tutti, all’interno e all’esterno della Chiesa. Con una visione chiara su alcuni temi scottanti, come quello delle migrazioni: “Anche se gran parte degli italiani percepisce i migranti come una minaccia noi diciamo con forza che il futuro si sta proponendo con forza alla nostra attualità. Altrimenti problemi come la denatalità o le pensioni, senza il contributo dei migranti, non si risolveranno”.
Intervista a don Marco Pagniello, direttore di Caritas italiana
Cosa vi portate a casa dall’esperienza salernitana?
Siamo venuti a Salerno per avere la possibilità di confrontarci con la concretezza della vita. Non solo per metterci in ascolto delle fatiche delle periferie ma anche per conoscere le risorse e le possibilità che arrivano da questi luoghi. Con la rete delle Caritas diocesane stiamo cercando di approfondire la via della creatività e qui in Campania ce n’è tanta. Anche perché è un laboratorio di grandi esperimenti relazionali: è una regione che accoglie migranti e diverse situazioni di povertà. Non è stato un convegno sul Sud. Ascoltando queste esperienze vogliamo tornare a casa andando alla ricerca di quelle periferie esistenziali e geografiche che a volte sono luoghi di solitudine e di disagio relazionale. Penso alle grandi città dove i centri città sono delle periferie esistenziali, perché oramai abitati soltanto da anziani. Una Caritas parrocchiale che vuole abitare il suo territorio deve chiedersi con creatività cosa può fare per queste persone sole. O per il disagio dei giovani, soprattutto degli adolescenti, che hanno vissuto e subito la pandemia più di tanti altri. Ma anche dei fratelli e sorelle con grosso disagio psicologico e psichiatrico. Di fronte a questi scenari la Caritas ancora una volta rimette al centro della sua attenzione la comunità, uscendo dall’autoreferenzialità per confrontarsi con altri, sia all’interno della Chiesa sia all’esterno. Costruendo insieme comunità a partire dai poveri.
Ci sono buone prassi o provocazioni su cui riflettere?
La provocazione più grande che abbiamo sentito a Salerno è la possibilità di costruire comunità nuove includendo i poveri nei processi decisionali. I poveri vogliono fare la propria parte. Per noi è ridirci da cosa partire, ossia dall’inclusione sociale. Costruire comunità non può essere compito solo della Chiesa e il confronto con la società civile è fondamentale. Non pretendiamo che la politica ci capisca ma che ci ascolti.
Ad esempio?
Sui migranti, ad esempio, anche se gran parte degli italiani li percepisce come una minaccia, noi oggi diciamo con forza che il futuro si sta proponendo con forza alla nostra attualità. Il problema della denatalità o delle pensioni, senza il contributo dei migranti, non si risolveranno.
La vostra esperienza con le povertà può essere un grande contributo alle politiche. Vi sentite ascoltati dalle istituzioni?
Ci sentiamo ascoltati ma il problema è che poi non diventa adesione da parte loro. Noi portiamo proposte accompagnati da dati ed esperienze nei territori ma allo stesso tempo dobbiamo essere liberi dalle aspettative.
Al convegno è emerso il tema della dispersione scolastica, soprattutto al Sud: c’è un impegno particolare da sollecitare alle Caritas?
Non solo riparare ma cominciare a lavorare un po’ di più sulla prevenzione. Molte Caritas già lavorano tanto ma non è solo una questione di Chiesa. La dispersione scolastica va affrontata con una azione di sistema in cui ognuno deve fare la sua parte (scuole, associazioni, parrocchie, Caritas). Avere il coraggio di essere lievito e sale nei territori e avviare processi per costruire un patto educativo.
Si è parlato anche del patto educativo per l’area metropolitana di Napoli, che unisce diverse realtà. L’idea potrebbe essere riproposta a livello nazionale?
Sì, serve un patto educativo per tutta l’Italia e non solo per la dispersione scolastica, che io chiamerei patto di corresponsabilità in cui la Caritas si fa facilitatrice, perché le sfide possiamo affrontarle solo insieme. Perché oggi abbiamo una marea di slogan, ma un vuoto di pensiero. Non dobbiamo aver paura di dialogare e co-progettare insieme e poi come Caritas e Chiesa essere liberi di lasciar andare. La nostra responsabilità come Chiesa è di andare oltre i vari mondi, nella politica e nell’associazionismo. La vera sfida è ritrovarci e confrontarci per costruire. Il Reddito di cittadinanza, ad esempio, non è solo un problema di contributo al reddito ma di cultura. Poi c’è il tema del lavoro nero. Senza la cultura non se ne esce, altrimenti saremo sempre quelli che “mettono stampelle”. Noi non rinunciamo a dare da mangiare al povero ma vorremmo che i poveri abbiano la possibilità di diventare autonomi.